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Cultura e spettacolo

Una delle sole tre tappe italiane della loro tournée mondiale
4 minuti e 29 secondi di lettura
di Dario Vassallo
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Poiché di Beatles si tratta, si potrebbe cominciare parafrasando l'incipit di uno dei loro più celebri capolavori, 'Sgt. Pepper': "It was sixty years ago today...". Nell'originale erano 'twenty' ma oggi gli anni trascorsi sono sessanta e siamo qui, tutti molto più vecchi di allora, a celebrare la data storica della conquista della città in un torrido sabato d'inizio estate, il 26 giugno 1965, da parte del più famoso gruppo che la musica popolare abbia mai espresso. Dimenticare è difficile e ciò che resta è aggrapparsi come si può al poco che ci viene lasciato in eredità, e cioè il ricordo di quello che è stato un momento d'oro per la nostra città.

Una delle sole tre tappe italiane

Che allora Genova fosse stata scelta, insieme alle sole Roma e Milano, come tappa italiana di una strabiliante tournée mondiale ci consegna un sapore a metà tra l'orgoglio e il rimpianto, per quello che eravamo e non siamo più: in crescita vorticosa, con un porto che tirava a mille, una centralità sociale e culturale (si pensi a cos'era allora il Teatro Stabile di Ivo Chiesa e Luigi Squarzina che con le sue tournée raccoglieva successi in tutto il mondo), la città per eccellenza delle partecipazioni statali, della siderurgia, della cantieristica e una soddisfazione talmente palpabile che la potevi persino toccare. Tempi andati. Furono gli stessi Beatles - avallando forse la nomea che ci portavamo dietro di città più british d'Italia o forse per una sorta di assonanza con Liverpool, entrambe con un porto significativo e un'alta densità operaia - a preferirci a Bologna e Venezia (dove avrebbero dovuto suonare davanti alla Basilica di San Marco), ritenute piazze economicamente più convenienti da Leo Wachter, l'impresario che li portò in Italia.

Sbeffeggiati sui giornali dell'epoca

Genova rispose con l'entusiasmo di un'intera generazione, quella che veniva sistematicamente sbeffeggiata sui giornali dell'epoca. Perfino una cronista come Natalia Aspesi sul 'Giorno' scriveva parole aberranti: “Il beatleomane italiano tipo di sesso maschile è di età tra i 12 e i 17 anni, poco incline alla pulizia personale, spesso pallido e di debole costituzione mentre le ammiratrici salvo alcune eccezioni sono bambine umiliate dal grasso in crescita vestite secondo i più poveri dettami ye ye e purtroppo molto spesso somigliantissime al loro idolo Ringo”. Le faceva eco il 'Corriere lombardo': “Il fenomeno Beatles che esercita la sua più turbolenta influenza sulle masse della gioventù, in particolare di quelle femminili, non è certo giustificato dal prodotto musicale piuttosto scadente di questi grotteschi messaggeri del ritmo”.

Hanno colto lo spirito del tempo

Quello che non si voleva capire era il motivo fondamentale per cui quattro ragazzi erano riusciti ad infiammare il mondo, il fatto cioè che insieme a pochissimi altri – penso ad Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, i grandi poeti della beat generation – avevano colto perfettamente lo zeitgeist rendendosene portavoci nella musica: erano la fotografia perfetta del tempo che rappresentavano, questa la semplice e allo stesso tempo rivoluzionaria realtà che venne compresa e introitata da milioni di persone senza distinzione di età, lingua, ceto sociale e razza. E se è vero che ormai i concerti cominciavano a star loro stretti (l'ultimo, al Candlestick Park di San Francisco, si sarebbe tenuto soltanto quattordici mesi più tardi), che la dimensione live non li appagava più e che il leggendario sergente Pepper e i grandi capolavori della maturità, tutti costruiti in studio, erano ancora lì da venire, la tappa genovese, non diversamente da altre, servì in ogni caso ad alimentare ulteriormente quella Beatlesmania che rimane la cifra sociale più evidente dei rivolgimenti musicali che gli anni Sessanta hanno portato con sé.

La loro serata genovese

Sul loro soggiorno cittadino fiorirono le leggende più varie e la Storia, come inevitabile, sconfinò nel Mito: le ragazze urlanti davanti all'albergo Columbia (oggi Biblioteca universitaria) dove dormirono la notte tra il 25 e il 26 (questo è accertato), il bagno di George Harrison a Sori (c'è la testimonianza della ricevuta di un taxi), il giro notturno della città per vedere il porto illuminato (ne avranno avuto il tempo?), addirittura una puntatina nel centro storico e altre amenità del genere. Comunque la si voglia vedere, anche se la loro permanenza durò poco più di ventiquattro ore volando a Roma subito la fine dello show serale, fu in ogni caso un evento.

Una città compassata che perse la testa

Per i loro due concerti al Palasport quel 26 giugno 1965 la nostra città - di solito così compassata - perse la testa e le cronache del tempo parlano di "molte persone svenute e alcune ragazze, in eccesso di isterismo, fermate dalla polizia nel tentativo di denudarsi". Il tutto per dodici canzoni, una mezz'oretta o poco più che però per chi c'era - nel mio piccolo, abbastanza piccolo direi: undici anni, io c'ero, complice l'imprevista benevolenza di mia madre – rimarranno indelebili nella memoria. Il treno della Storia passa una volta sola e fummo felici di poterci salire al volo toccando con mano tutta la seduzione e il carisma di quattro oracoli sexy che ricevevano musica dall'inconscio collettivo e la rimandavano indietro con una forza centuplicata dopo averla fatta passare attraverso il loro corpo, la loro anima e il loro talento. Una musica che un giorno è uscita da una cantina di Liverpool e rimbalzando sul marciapiede opposto ha fatto milioni di volte il giro del mondo.

 

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