"Buongiorno comandante", "buongiorno Antonio". Entrando nel carcere di Marassi con al fianco Antonio Chessa sembrava che il tempo non fosse mai trascorso, nonostante fossero passati oltre vent'anni da quando era andato in pensione, da quando lui era stato il comandante dei poliziotti penitenziari, che allora si chiamavano "secondini".
Il volto umano dietro le sbarre
Chessa nella primavera dello scorso anno aveva accettato di raccontare la sua storia a Michè, (il video allegato). Lui per tutti era rimasto "il comandante" di quel posto dove nessuno vorrebbe mai entrare, di quelle celle sempre sovraffollate, contenitori di anime in pena di ogni colore e di ogni fede.
Quell'intervista a due passi dal carcere era stato un viaggio nell'inquietudine dell'istituto che era stata la vita di Chessa, comandante negli anni '80, periodo delicato, quando lui stesso era uno dei primi obiettivi delle Brigate Rosse.
Nel mirino delle Br
Il suo racconto era stato il racconto di un bambino nato in Sardegna destinato a fare il pastore che sognava il posto fisso da carabiniere e che invece si era ritrovato per caso a fare l'agente della penitenziaria.
"Il carcere deve riabilitare non reprimere"
Sanguinari serial killer come Donato Bilancia, sprezzanti brigatisti, ripetitivi criminali, al cospetto della quotidiana convivenza con male dietro le sbarre, Antonio, aveva raccontato di essersi salvato con la sua umanità, l'umanità di chi arriva dal basso, con il dialogo, la spontanea solidarietà di chi conosce la sofferenza, sognando un carcere più giusto, un carcere che rieduchi davvero: "Il detenuto non deve passare il tempo a parlare dei reati commessi dai compagni di cella, sennò la sua testa, i suoi pensieri, rimangono lì - aveva ribadito Chessa - ma deve muoversi, deve fare attività all'esterno, tenere la sua mente occupata, solo così può sperare di cambiare e riscattarsi. Il carcere serve a questo, a dare nuove opportunità".
Dopo quella intervista mi era capitato di rincontrare più volte Antonio, che era sempre al fianco della moglie, per lui come un angelo custode, un rapporto d'amore quello fra i due coniugi, si intuiva subito, equilibrato e bellissimo, fatto di complicità e di rispetto. Antonio era molto orgoglioso dell'intervista a Michè, "lì ci sono io e gli agenti che hanno lavorato con me per rendere meno dura la detenzione dei reclusi e il lavoro di poliziotti ed educatori".
Alla moglie di Antonio, ai figli e a tutte le persone a lui care, fra cui i tanti agenti penitenziari che gli hanno sempre voluto bene, vanno le sincere condoglianze di Primocanale.