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Il governo ha appena varato l’ennesimo decreto-legge che consente ad Acciaierie d’Italia di bruciare altri 108 milioni di fondi pubblici per restare in piedi fino al febbraio 2026
2 minuti e 17 secondi di lettura
di Matteo Angeli

Il conto alla rovescia è partito e venerdì, a Roma, potremmo finalmente capire qualcosa sul destino dei lavoratori dell’ex Ilva di Genova. Ma è inutile fingere: nessuno ci crede più. L’ottimismo è evaporato e la sensazione diffusa è che anche questa volta non cambierà nulla.

Il governo ha appena varato l’ennesimo decreto-legge che consente ad Acciaierie d’Italia di bruciare altri 108 milioni di fondi pubblici per restare in piedi fino al febbraio 2026. Una scadenza teorica, perché la procedura di vendita è ferma al palo e di acquirenti veri non se ne vede uno neanche col binocolo.

Siamo al diciannovesimo decreto “salva-Ilva” dal 2012: una sequenza infinita di toppe che i sindacati definiscono senza mezzi termini inutili e prive di qualsiasi visione industriale. E intanto l’azienda affonda: conti in rosso, liquidità inesistente, impianti che cadono a pezzi e costi che superano di slancio le entrate. Così, puntuale come un rituale, arriva la solita iniezione di denaro pubblico per evitare il blackout totale.

Nel pacchetto figurano anche 20 milioni per integrare la cassa integrazione fino al 75%. Oggi i lavoratori in cig sono 4.500, presto diventeranno 5.700 e a gennaio 6.000. Numeri che fotografano non un rilancio, ma un lento smantellamento.

Il paradosso è che il mercato dell’acciaio, fuori dall’Italia, corre. “Genova potrebbe lavorare al 100% se arrivassero i rotoli d’acciaio. Le richieste ci sono e anche le competenze”, ripete come un mantra Armando Palombo, Fiom Cgil. E ha ragione: qui manca tutto tranne il lavoro.

I privati hanno paura e non arrivano. Perché allora non affidarsi allo Stato che avrebbe già a disposizione un intero apparato industriale con cui costruire una vera presenza imprenditoriale: tra Cdp, Invitalia e grandi gruppi come Leonardo, Fincantieri, Eni ed Enel esiste un patrimonio pubblico che potrebbe fungere da base per un progetto solido e coordinato. Ciò che è sempre mancato, però, è una chiara scelta politica in questa direzione.

L’acciaio, inoltre, è un settore chiave per comparti decisivi come difesa e automotive, nei quali il Paese investe somme enormi. Dipendere dall’estero per forniture che potrebbero essere prodotte nel nostro territorio, in quello che è l’impianto siderurgico più grande d’Europa, è una contraddizione difficilmente giustificabile.

A complicare tutto c’è la decarbonizzazione, un percorso enorme che richiede investimenti e tempi certi. E in questo contesto già fragile è arrivata anche l’ammissione della sindaca Salis: ho detto “sì” al forno elettrico pur sapendo che non sarebbe stato realizzato. Una bugia al ministro Urso e una bugia ai genovesi: perché invece non dire subito la sua posizione e il suo lecito scetticismo?

Genova, intanto, resta appesa. Aspetta risposte, ma soprattutto garanzie vere. Perché le promesse non bastano più da anni. E l’ennesimo rattoppo non salverà né l’ex Ilva né un territorio che chiede, una volta per tutte, una strategia degna di questo nome.

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