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Ero convinto fino a qualche giorno fa, che su Fabrizio De André, la sua poetica, la sua musica, la sua ribellione da gran borghese, la sua Genova ondeggiante tra Albaro e i caruggi, fosse stato scritto e detto tutto. Invece no. Un affermato penalista genovese, Raffaele Caruso, specialista in criminologia clinica, saldamente formato nell’Azione Cattolica, responsabile della didattica nella Scuola di Politiche dell’Università, impegnato nella vicenda del Ponte Morandi nel ruolo di difensore del Comitato Zona Arancione e del Comitato ricordo vittime, ci rivela un De André “giurista”, a suo modo, s’intende, quello di un rivoluzionario musicale, ma non soltanto. Perché Caruso, che non ha conosciuto da vicino Fabrizio, ma lo ha amato come cantautore, in un suo saggio-romanzo edito dalla San Paolo, dal titolo “Alla stazione successiva” riesce a rivelarci un Fabrizio mai studiato finora. Che attraverso le sue canzoni, quasi tutte, le sue storie, i suoi personaggi, essenzialmente vittime, definisce i confini di una sua giustizia o di una sua idea (o sogno) di giustizia, meritevoli di essere analizzati e discussi.

Spiega l’avvocato Caruso che De André “sembra incitarci a sperare ancora in direzione ostinata e contraria, immaginando una giustizia diversa, in cui sia possibile guardare negli occhi chi ha sofferto senza accanirsi con chi ha sbagliato, perché quell’accanimento non è ciò di cui ha bisogno chi il delitto lo ha subito”.

Dunque perché una “stazione successiva”? “Non possiamo fare a meno di legge e tribunali. Ma abbiamo il dovere di sognarli diversi e migliori di come sono. Non saremo forse noi ad arrivare alla stazione successiva, ma a noi tocca il compito di porre lo sguardo su quell’obbiettivo”. L’avvocato-scrittore lo fa analizzando canzone dopo canzone, dal Pescatore a Geordie, da Marinella al Testamento di Tito, da Un medico a Un giudice fino al Miché, a Bocca di rosa, fino a don Raffaé, attraverso un’ analisi approfondita del testo, che diventa analisi del diritto, esegesi delle norme, delle riforme mancate, delle pene, degli errori. E monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia che ha scritto la prefazione e presenterà martedì il libro con Valeria Fazio Procuratore generale emerito di Genova alla sala Quadrivium alle 17.30, introdotti da Gianfranco Calabrese, vicario episcopale, sintetizza perfettamente il saggio. ”Alla stazione successiva perché il treno è sempre in corsa e l’uomo resta un viandante, in ricerca della verità, della propria umanità…”. Alla fine una giustizia, quella di Fabrizio scoperta da Caruso che anche nel solco della critica a ogni potere, disegna una idea di giustizia che “aspira ai tratti della misericordia”. E proprio per questo può diventare oggetto di dibattiti molto vivaci, soprattutto politicamente.

Ma la parte che mi ha di più colpito del libro è il romanzo popolare che Caruso scrive all’interno. La prima parte dove racconta la sua genovesità di figlio di una famiglia immigrata. La vita nel quartiere della Maddalena, la scuola al “nostro” liceo classico il Colombo di De André, ma anche di Sbarbaro, poeti tutti e due, le ricreazioni attorno alla statua del navigatore seduto e pensoso (o pensante), poi la facoltà di Giurisprudenza. Il padre sarto, che esporta a Genova la qualità della tradizione artigiana, la mamma insegnante . “Mio padre non si sentiva rappresentato da quel cantore degli ultimi, lui che pure ultimo lo era stato”. Era la Genova degli anni Cinquanta e Sessanta  quando i treni del sole risalivano lo Stivale carichi di italiani in cerca di migliorare la propria vita, valigie con lo spago e bambini al seguito. Corsi e ricorsi storici. “Mio padre un esempio paradigmatico di quei poveri che sono divenuti classe media….e la Chiesa che ai suoi occhi offriva un contesto educativo e un ambiente sicuro a chi come lui si trovava senza radici in una città sconosciuta”. Caruso ha il diritto di parlare di Fabrizio perché quella Genova che Fabrizio canta così bene, l’avvocato l’ha vissuta per davvero.
Questo è il romanzo chiuso dentro il saggio. Dove l’aria che si  respirava in casa era “Un’aria distante anni luce dal mondo di De André, borghese nella sua radice e marginale nelle sue canzoni”. “Non gli sarei stato simpatico, troppo cattolico e in un certo senso banalmente cattolico……. io democristiano a 18 anni e poi popolare convinto, ma abissalmente distante dal suo anarchismo”.
Eccola questa Genova sconosciuta a molti. Forse dimenticata e , ahimé, non raccontata. Una Genova dove Caruso entra in contatto con personaggi formativi, da don Balletto il mitico prete editore a don Gallo, dal centro storico alla Valpolcevera, dai libri di filosofia del diritto del professor Tarello all’incrocio proprio con Fabrizio. In questa Genova contradditoria. L’incontro magari al Colombo di via Bellucci, con un giovane Fabrizio che passeggia nel cortile, sicuramente dopo aver fumato nei gabinetti della scuola, come facevamo quasi tutti…
“Ma l’elemento di maggior distanza che, ritengo, avrebbe fatto durare la nostra ipotetica conversazione non più di dieci minuti, sarebbe stata la domanda che dicono fosse solito fare a ogni genovese che incontrava e in cui riscontrava una certa timidezza: sarai mica doriano? E io avrei risposto di sì”.
Esiste dunque un “codice De André”? Provocatoriamente potremmo dire di sì, che se ne può discutere. Succederà martedì e vale la pena di esserci.