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Mario Sconcerti se ne è andato via improvvisamente. Era un vulcano. Un vulcano fiorentino. Ce ne accorgemmo subito al “Decimonono”, quando apparve sulla porta della redazione di via Varese nel febbraio del 1992. Ero caporedattore delle pagine culturali, che con la direzione di Carlo Rognoni erano diventate un album ricco e vivace. Sconcerti, dopo pochi mesi, mi catapultò in cronaca “così ti diverti!” mi assicurò.

Tornare a fare il capocronista con lui alla direzione divenne una sfida quotidiana. L’eterna riunione del mattino, quella in cui si imposta il giornale salvo, poi, modificarlo ora dopo ora fino a notte inoltrata, diventava un esame di maturità, il direttore che faceva le domande e la “vittima di turno” (si fa per dire logicamente!) che doveva rispondere a tono.

“Sentiamo la cronaca!” tuonava. “Paternostro, perché domani i genovesi dovrebbero leggere la cronaca cittadina?”. Ecco, ora il capocronista avrebbe avuto il compito di spiegare al direttore e ai colleghi di riunione questo perché. Cioè, in parole semplici, annunciare e enunciare la/le notizie che avrebbero suscitato (o dovuto suscitare) l’interesse dei lettori, la curiosità, l’acquisto del “Secolo XIX”.  E sicuramente, riempire le locandine (i manifesti pubblicitari posti a fianco all’edicole) con titoloni invitanti.

Succedeva che, a volte, a mezzogiorno non ci fossero ancora notizie tali da suscitare questi accesi sentimenti da “toscanaccio doc”. Era un guaio. Che noi cronisti, soprattutto quelli di nera, avrebbero dovuto rimediare nelle successive ore di lavoro. C’era una gran bella cronaca, nera e bianca, e alla fine quasi sempre quelle locandine riuscivamo a riempirle. La stessa domanda veniva replicata per lo sport soprattutto, gli spettacoli, la politica e l’economia. Un quiz a volte infernale, spesso che si concludeva con battute e risate. Magari alle 3 del pomeriggio con lo stomaco che bruciava di fame.

La prima pagina che disegnava con eleganza impareggiabile Umberto Torlizzi fu completamente rivoluzionata, perché Mario la voleva simile a quella dei quotidiani sportivi. Più forte, ma soprattutto passando dalle “fotine” così anglosassoni alle “fotone”, magari scontornate. Così la prima, ma anche le prime di cronaca, come se fossero copertine interne. Allora, quando il povero Torlizzi non sapeva più che diavolo inventare per accendere la pagina, ecco che proponeva ironicamente, col suo accento romano “Mo’ te   ce metto un fregno buffo…”. L’invenzione arrivava con un’ idea grafica a fare da immediato richiamo dell’attenzione. Sul titolo, sulla fotografia, sulla vignetta.

Le prime spesso erano occupate da un’ altissima fotografia del personaggio del giorno ripreso in piedi. Insomma l’immagine magari su due colonne stava a occupare la pagina dall’alto al basso. Fosse la Parietti presentatrice del festival di Sanremo o Craxi all’uscita dal Raphael di Roma sotto una pioggia di monetine quel 30 aprile del ’93.

Ci abituammo presto al suo brio, alle riunioni interminabili, alle richieste curiose e sempre intelligenti e azzeccate, sempre “oltre la notizia che questa ce l’hanno tutti”, ai commenti contrapposti, a un  serissimo rigore delle fonti. Eravamo nel pieno di Tangentopoli, periodo delicatissimo per chi dirigeva (e anche scriveva) sui quotidiani. L’addio di Cossiga “che commuove l’Italia”, l’assassinio di Falcone e Borsellino, le Colombiane con una meravigliosa Amerigo Vespucci che navigava su metà prima pagina , l’Acquario, Malerba in orbita, i soliti catastrofici nubifragi su Genova, la scomparsa di Paolo Mantovani, l’arrivo di Berlusconi, il delitto del trapano. E lo sport, spumeggiante, che non riduceva una particolare attenzione alla cultura che nel ’92 aveva cambiato il volto a Genova.

Così era Mario Sconcerti, esigente e compagnone, fantasioso e rigoroso. Veniva spesso a cena a casa mia. Logicamente, non prima delle 23, quando il giornale era chiuso. “Sconcerti Mario!“ si presentò a mia moglie la prima volta. E decise che si sarebbe messo ai fornelli lui al posto suo. Non ricordo che cosa cucinò, ma non era questo il problema. Dopo, le chiacchierate, fino a quando il sonno non ci consentiva più di proseguire.

Prima di lasciare la direzione, mi fece un grande regalo. Scrisse la prefazione del mio primo libro sui “Genovesi”.
“Un libro su Genova e i genovesi mi è sembrato all’inizio un elogio del silenzio. Genova è una scoperta lenta. Ci vuole molto tempo per conoscerla e molto per amarla…..Genova ha quello strano, fortissimo rispetto di sé che a volte tocca l’arroganza. Nessuno chiede a nessuno perché, in fondo, chi non ci vuole non ci merita. Non è stato facile abituarsi a questa mentalità……Genova e i genovesi hanno davvero una loro grande diversità. Che non significa essere migliori o peggiori degli altri, ma certo profondamente diversi. Questa è una città dove tutto accade, ma dove sembra quasi per definizione, che niente accada mai…… A Genova si dice ancora che Garibaldi è partito da Quarto. Col risultato che nessuno studente di scuola media  sa che Quarto non è che Genova. Molte altre città ti sborniano di prodigi e energia. La magia di Genova  sta nella sua lentezza, in quella specie di “macaia” dell’anima che fa poi eleganza, discrezione, rispetto e via via ancora sostanza, materia, forza. Una magia contagiosa, in una città che è come un labirinto luminoso dove tutto sembra sempre finire e tutto sempre ricomincia”.
Era il 1994. Mario ci aveva capiti benissimo.
Ciao caro, carissimo direttore.

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