Il 15 giugno 1925 a Torino veniva pubblicato da Piero Gobetti “Ossi di Seppia” la prima raccolta poetica di Eugenio Montale che di fatto segnò l’ingresso del poeta e scrittore genovese nella storia della letteratura italiana e mondiale.
Pubblicato originariamente dall’editore Piero Gobetti a Torino, Ossi di seppia rappresentò una vera e propria frattura rispetto alla tradizione lirica del primo Novecento. Con un linguaggio asciutto, spesso ruvido, Montale propone una poesia disillusa, che guarda con lucidità all’impossibilità di trovare senso e consolazione nella realtà. Al centro dell’opera, non più l’io lirico romantico, ma un soggetto smarrito, disincantato, che si confronta con un mondo arido e ostile.
Il titolo stesso – Ossi di seppia – allude a un’immagine scabra, a ciò che resta dopo che la vita ha consumato il suo corpo. Sono frammenti, reliquie spiaggiate dal mare, emblemi della condizione umana: “codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
Non era un libro facile allora, e non lo è nemmeno oggi. Montale non offriva conforto, non cercava bellezza nel senso classico del termine. Ossi di seppia era (e resta) un rifiuto dell’illusione, una denuncia poetica del vuoto che si cela dietro le maschere del quotidiano. Il paesaggio ligure, ruvido e assolato, diventava metafora della condizione umana: aridità, resistenza, solitudine. Ma anche ostinata ricerca di senso, pur sapendo che il senso sfugge.
Nel 1925, la letteratura italiana era ancora legata a certe forme eleganti, all’eredità del dannunzianesimo e al culto dell’io lirico. Montale fece saltare tutto. Scelse la lingua scabra, l’immagine scheletrica, la rinuncia a ogni compiacimento. Scrisse contro la poesia come rifugio. E per questo è diventato, paradossalmente, uno dei poeti più necessari del Novecento.
Il paesaggio ligure come metafora
La Liguria amata da Montale – le Cinque Terre, in particolare Monterosso – non è mai sfondo decorativo, ma diventa simbolo dell’aridità esistenziale. Il paesaggio roccioso, la luce abbagliante, la vegetazione dura e spinosa riflettono il disagio interiore del poeta. In questa dimensione, la poesia assume una funzione conoscitiva e testimoniale, piuttosto che estetica o consolatoria.
L’eredità di Montale
Nel corso del Novecento, Montale avrebbe evoluto il suo stile e la sua poetica, fino al Nobel del 1975. Ma Ossi di seppia resta la pietra angolare della sua opera, il manifesto di una nuova sensibilità moderna. È un’opera che ha influenzato generazioni di poeti e lettori, che ha dato voce al senso di spaesamento di un’epoca.
Oggi, a cento anni dalla sua pubblicazione, Ossi di seppia continua a essere studiato, amato, interpretato. Celebrazioni in tutta Italia – da Genova a Firenze, passando per Torino – stanno ricordando la figura di Montale con mostre (una anche a Palazzo Ducale), letture pubbliche, convegni accademici. Ma il vero tributo a Montale è forse nella lettura silenziosa, individuale, di quei versi che ancora sanno parlare alle inquietudini del nostro tempo.
“Spesso il male di vivere ho incontrato…” E ancora lo incontriamo, ma Montale ci ha insegnato a guardarlo in faccia, con rigore e senza illusioni. Anche per questo, cento anni dopo, Ossi di seppia è più vivo che mai.