La lettera di Mario Margini e Claudio Montaldo a 'IL PRIMO' , come tutte le iniziative dettate non dalla ‘ragion politica’ ma da un bisogno profondo di sincerità , sollecita una risposta.
La presa di posizione dei due importanti esponenti del PD è franca, condivisibile, pericolosamente accorata, proprio per il fatto di provenire da due protagonisti di quella che voleva essere una fase di rinnovamento : una ‘nuova stagione’ della sinistra, per riprendere uno slogan abbastanza sfortunato .
Oggi, che da quella stagione sembra dividerci una lunga notte polare, Margini e Montaldo, due facce pulite di quella esperienza , si guardano intorno e scoprono, oggi, che il nuovo partito e il suo progetto sono insidiati da verticismo autoreferenziale, perdita rovinosa di consenso, delusione, sconcerto , da parte dei suoi sostenitori e anche da parte degli oppositori, che non si aspettavano davvero , né si auguravano la perdita del principale interlocutore.
Va loro riconosciuto, dunque, il merito di essersi accorti – dall’interno, dalla ‘sala macchine’ per così dire, del Partito Democratico - di quanto è da tempo sotto gli occhi di un numero crescente di elettori ‘di sinistra’.
E’ il Partito , finalmente , a non riconoscersi più, a non riconoscersi corrispondente all’immagine che ne aveva giustificato la nascita. E’ il Partito , paradossalmente, ad auto-denunciarsi.
Ma la gente comune se n’era accorta da tempo. E se n’era accorta molto presto, da segnali non equivoci: il mantenersi inalterato all’interno del ‘nuovo’ organismo delle ‘vecchie’ distinzioni e posizioni di potere , l’affollamento di facce note che premevano alle porte della nuova formazione, reclamando posti, la conflittualità endemica . Il ‘partito capolinea’ di cui aveva scritto Macaluso si era presto rivelato tale.
Il punto è , cari Margini e Montaldo, che – al di là dei programmi, delle parole d’ordine, delle mozioni degli affetti – si è capito quasi subito che uso si voleva fare delle nostre speranze, del nostro disperato bisogno di tornare a emozionarci per la politica.
Le facce note e compiaciute che affollavano il salone di Palazzo San Giorgio, il giorno della uscita in pubblico del PD, erano ben diverse da quelle che, qualche anno prima, avevano acclamato , addirittura invocato Cofferati – in una non dimenticabile serata di primavera – perché assumesse il compito di portare la sinistra a una vera ‘nuova stagione’.
Quella sera il ‘cinese’ non ci stette. Il pubblico-popolo si limitò ad applaudire la tardiva ( e oggi possiamo dire inutile ) riconciliazione dei DS con Adriano Sansa. Cofferati aveva capito in anticipo che la politica, quella vera, si fa – anche , forse più spesso - attraverso la rinuncia piuttosto che attraverso il perseguimento ostinato di un potere qualsiasi.
La speranza, in politica, chiede volti nuovi. E non sono purtroppo nuovi quelli di chi oggi si avvede finalmente dello sfacelo, addebitandolo al vizio verticista e alla sorprendente scoperta di quanto fosse difficile il compito che ci si stava assumendo.
Non c’è rinnovamento senza rinuncia alle posizioni acquisite e troppo a lungo , ostinatamente difese, anche contro gli interessi e le aspettative della collettività.
La rinuncia di quella serata, trova eco e riscontro in quella - nuova - del nuovo Cofferati. La politica si fa anche imparando onestamente e – perché no, coraggiosamente - a rinunciare al potere che è sempre la politica ( il popolo , suo principale attore e insieme destinatario ) ad affidare provvisoriamente.
Solo tornando a essere uomini ( e donne ) comuni si può aiutare il futuro a farsi riconoscere, a mostrarci facce nuove nelle quali poterci finalmente riconoscere. Solo tornando a essere nient’altro che padri e madri: gente che va a fare la spesa o a passeggio , in autobus, al bar . Proprio come l’uscente sindaco di Bologna, che passeggia per Piazza de Ferrari spingendo la carrozzina di suo figlio, o aspetta la moglie leggendo il giornale.
Ci vuole coraggio ad essere davvero comuni.
*Magistrato
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