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L’appuntamento è al Cinema America alle 20
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E’ stato certamente una delle cose migliori viste in concorso alla recente Mostra di Venezia. Un film – ‘Freaks out’ - che in qualche modo dà un significato nuovo al cinema italiano. Non tanto per i temi che affronta, pure importanti, cui si avvicina con emozione e rispetto ma certamente non inediti – racconto d’avventura, romanzo di formazione, riflessione sulla diversità – quanto per come vengono affrontati: in maniera grandiosa ed epica, avvincente e stimolante, il che rappresenta davvero una novità.

Questa sera il regista Gabriele Mainetti (lo stesso de ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’) è a Genova, al Cinema America, dove avrò il piacere di intervistarlo prima e dopo la proiezione del film (si parte alle 20). Una storia ambientata nel 1943 nella Roma occupata dai nazisti dove quattro ‘freaks’, termine che in inglese significa letteralmente ‘scherzo della natura’, si esibiscono come artisti in un circo: un microcosmo autosufficiente, il loro, fatto di affetto risate e innocenza che viene bruscamente frantumato quando Israel, il proprietario, scompare misteriosamente e nel cercarlo vengono catturati da un ufficiale nazista in grado di vedere il futuro per il quale i quattro rappresentano l’unica speranza di vincere la guerra.

“’Freaks Out’ - ha detto il regista a Venezia - nasce da una sfida: ambientare sullo sfondo della pagina più cupa del Novecento un film che fosse qualcosa di diverso. Per farlo ci siamo avvicinati alla Roma del 1943 con rispetto ma allo stesso tempo abbiamo dato libero sfogo alla fantasia: sono nati così i nostri quattro freak, individui unici e irripetibili, protagonisti di una storia più grande di loro. Dopo ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, con il soggettista e sceneggiatore Nicola Guaglianone ci siamo domandati ‘e adesso che facciamo di altrettanto fico?’. Un sequel era fuori discussione, così abbiamo iniziato a buttare giù alcune idee, guidati da un’unica, grande domanda: ‘Tu cosa vorresti fare?’. Perché un film deve nascere prima di tutto dalla passione, non da un calcolo.

Ci siamo messi a lavorare – continua Mainetti - e a un certo punto, sul tavolo, c’erano sette storie, anche molto diverse tra loro. Come era già successo per Jeeg, le “condensavamo” man mano che si andava avanti finché un giorno Nicola mi ha detto ‘ce l’ho: i freak li facciamo con i poteri, nella Seconda guerra mondiale’. È lì che ho visto per la prima volta i film e da lì abbiamo iniziato a immaginare i nostri eroi. L’idea dei poteri un po’ mi spaventava: non volevo replicare Jeeg e soprattutto mi interessava che la forza dei protagonisti nascesse – più che dai singoli poteri – dall’unione di 4 persone speciali. Mi sono sforzato di rendere originali queste loro abilità, ovviamente a modo mio, ma senza mai dimenticare – e anzi esaltando – l’umanità dei personaggi. Abbiamo sempre pensato ai nostri protagonisti come gente vera, cercando di guardarli senza pietismo perché sono loro stessi i primi a rifiutare ogni (auto)commiserazione, a non viversi come “mostri” ma come persone”.