Quando il mio "vecchio mulo" ha esalato l'ultimo respiro, mi sono sentito perso. È stato il mio fedele amico per circa venti anni. Silenzioso quando era il caso, pronto a raccogliere le mie e le altrui parole ogni volta che era necessario. Necessario, non di più. Le rare volte in cui l'ho lasciato a casa non ho mai avuto occasione di lagnarmene: sapevo che alla sera lo avrei ritrovato, leale come sempre.
Il mio "vecchio mulo" era fatto così: semplice, senza alcuna pretesa, indulgente più alle antiche abitudini che al modernismo spinto. "Non puoi andare avanti in questo modo" continuavano a ripetermi parenti, amici e colleghi. Per tutti era incomprensibile che io mi affidassi ad esso. Io, invece, ormai la ostentavo persino questa mia diversità. E mi sentivo ripetere: "Soprattutto tu che sei un uomo di comunicazione dovresti aggiornarti".
Se qualcuno non l'avesse capito, il "vecchio mulo" di cui parlo è, anzi era, il mio cellulare. Facevo e ricevevo telefonate e messaggi. Niente di più. Stavo bene in questo modo, senza gli invadenti social, senza la posta elettronica che ti poteva inseguire in ogni dove, senza tutto l'indefinibile che secondo me sta condizionando la vita delle persone senza che le medesime ne abbiano una esatta percezione.
Quando il mio "vecchio mulo" ha esalato l'ultimo respiro mi sono dovuto giocoforza recare in un negozio di telefonia. Il gentile commesso mi ha illustrato le mirabolanti prestazioni dei suoi prodotti migliori e i pagamenti in piccole rate. Ma anche i vincoli ai quali sarei stato sottoposto. Non mi ha convinto. Tornato a casa, ho scoperto che mia moglie aveva dismesso un cellulare tecnologicamente ampiamente superato, ma che ai miei occhi era nuovo. Che dico, nuovissimo.
Così, con la foglia di fico del risparmio, ma attratto dalla vetustà di quel "coso", ho preso la sim e l'ho infilata nell'apposito cassettino. Mi si è dischiuso un universo di colori e di suoni e mi sono sentito come un bambino. E ora? Ora puoi fare di tutto e di più mi ha spiegato il parentado, nel frattempo avvertito della "notizia" e pronto a dare i migliori consigli.
Io, però, mi sono bloccato. Ho pensato che no, non volevo essere come tutti gli altri. Arroganza? Narcisismo? Snobismo, persino? Può darsi. Mi sono arreso a whatsapp, perché mi hanno spiegato che oggi è lo strumento con il quale si comunica più facilmente. Ma da quando mia cognata, che adoro perché è la sorella che non ho, mi ha messaggiato ("sei arrivato anche tu, era ora!") senza che nessuno le avesse detto nulla, sto cercando di bloccare tutto ciò che consente di sapere, per esempio, quando è stato il mio ultimo accesso. E di mettere il disco rosso ad altre cose ancora: sarà superato, questo cellulare, ma di diavolerie ne porta in corpo fin troppe.
L'idea di un grande fratello che può seguire i miei movimenti, non bastassero tutti quelli che forzatamente devo accettare (dal bancomat in giù) proprio non la sopporto. Però c'è una questione di praticità e allora va bene, me la faccio andare bene. Dunque: che whatsapp entri nella mia vita. Ma il resto no, non l'ho voluto. Non lo voglio. D'altro canto sono uno che coltiva il mito del gettone e della cabina telefonica: che meraviglia quando consumavo le serate in quel metro quadrato per parlare con la mia fidanzata. Che poi è diventata mia moglie. Non si stava bene, benissimo a quei tempi? Sento un coro: certo che sì. E allora mi viene il dubbio, più di un dubbio: che sia solo il rimpianto per la gioventù ormai andata. Persa per sempre, come il mio "vecchio mulo".
cronaca
In morte del mio cellulare mi sono arreso a Whatsapp
L'abbandono del "vecchio mulo" e l'idea di un Grande Fratello che possa seguire i nostri movimenti
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