In merito al referendum del 20 e 21 settembre con cui gli italiani saranno chiamati a confermare (o meno) la decisione assunta dal Parlamento (con due successive deliberazioni per ciascuna Camera e con ampie maggioranze trasversali) di ridurre il numero dei propri membri da 945 a 600 non appartengo né alla schiera di coloro che vedono in tale riforma la panacea dei mali del nostro parlamentarismo, né a quella di chi profetizza che sarà foriera di un minor tasso di democrazia.
Ritengo che mutare il rapporto tra eletti ed elettori (dopo il 'taglio' ciascuno dei 600 parlamentari italiani rappresenterà circa 101.000 cittadini, in linea con le statistiche degli altri stati europei) contribuirà a snellire un poco la macchina parlamentare e ad apportare un risparmio, per quanto limitato, rispetto alla spesa pubblica complessiva.
E’ noto che il parlamento abbia perso gran parte della forza 'propulsiva' prevista dai padri costituenti, a scapito di Governi che abusano – e non da oggi - di decreti legge e apposizioni di fiducia; la forza e l’autonomia del parlamento risulta, inoltre, indebolita da leggi elettorali che consentono ai partiti di “nominare” gran parte dei parlamentari senza che gli elettori possano indicare la propria preferenza.
La riforma in questione non aggredirà a fondo i difetti del parlamentarismo italiano, ma non credo affatto che li aggraverà ed anzi auspico che possa in parte lenirli. Da un lato, infatti, penso che possa apportare efficienza all’attività delle Camere perché, come affermava Luigi Enaudi, “quanto più è grande il numero dei componenti un’assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all’opera legislativa che le è demandata”; e ciò senza che venga diminuito il (pur limitato) potere di controllo e condizionamento sull’attività di Governo, perché il peso dell’eventuale voto in dissenso dall’operato del Governo di ciascun parlamentare risulterà accresciuto dai minori numeri complessivi.
Dall’altro, credo che possa migliorare la qualità dei parlamentari eletti, essendosi verificato ciò che profetizzava Francesco Saverio Nitti, il quale, mettendo in guardia dal numero eccessivo di parlamentari, sosteneva che “accadrà dei legislatori come della nostra moneta, che più ne emettiamo e più diminuisce di valore; più aumenta il numero dei nostri legislatori e più essi diminuiranno di serietà e prestigio”. La riduzione dei posti disponibili dovrebbe indurre i partiti e gli elettori ad una maggiore e migliore selezione dei candidati: più meritevole risulterà il candidato e più ne beneficerà in termini di voti il partito che l’ha presentato. Ciò, tantopiù, se alla riforma seguirà la modifica della legge elettorale con la reintroduzione delle preferenze.
Tra le ragioni del “no”, riconosco il rischio della sottorappresentanza delle piccole regioni, talchè ritengo doveroso l’impegno della maggioranza di individuare i nuovi collegi evitando il più possibile tali storture. In definitiva, bilanciando pro e contro, voterò “si” senza particolare entusiasmo ma anche senza particolari ansie.
politica
Perché voterò sì al referendum
L'analisi in vista del 20 e 21 settembre
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