Un filo teso tra i fatti e la propaganda. Questo per la Sampdoria è il derby: disinfestazione dagli slogan con l'antisettico dei numeri.
La matematica è antipatica perché è esatta, non consente fanfare ai fanfaroni.
E la matematica spiega chi, a partire dall'eloquente 3-0 del 3 novembre 1946, abbia vinto di più (38 successi contro 24); chi a fine campionato sia arrivato quasi sempre davanti (59 volte in 72 anni), sia nel proprio peggiore torneo (2002) che nel migliore dei rivali (1991); chi in bacheca da allora abbia messo sette trofei internazionali e italiani, giocando altre nove finali europee e nazionali. Non male, per chi partiva con 53 anni di svantaggio nel radicamento istituzionale, mediatico, popolare. Eppure tutto questo - nel chiacchiericcio inconferente, che fa da rumore di fondo ai 363 giorni in cui il derby è parola anziché fatto - non sembrerebbe contare.
Forse la Sampdoria ha saputo rimontare - prima affermando la propria esistenza, poi sovvertendo gli iniziali rapporti di forza - proprio perché, nei suoi colori unici, proponeva una visione alternativa di Genova.
Da una parte, nel nome di un passato più volte rimodellato secondo convenienza, si pretendeva di occupare tutti gli spazi del possibile (la tradizione ma anche il futuro, le radici straniere ma anche la genovesità autentica, l'aristocrazia socioeconomica ma anche il popolo), potendo peraltro contare su un blocco di potere che andava dai palazzi della politica e dell'economia alle fabbriche del consenso, e che avrebbe avuto nel nefasto rifacimento dello stadio il vistoso punto apicale di efficacia. Dall'altra c'era la Sampdoria, slancio del cuore piuttosto che imposizione dinastica: esule in patria, ma con uno sguardo libero e aperto al futuro.
Il ridotto di San Pier d'Arena e della Val Polcevera, presidiato da Gloriano Mugnaini, era stato il punto di partenza della scalata. Gli immigrati dal Sud, destando tuttora perdurante ironia anziché un salutare interrogativo sul perché, sceglievano in massa la Sampdoria, che cresceva anche grazie a una sequenza di dirigenti comunque rispettabili, fino all'avvento di Mantovani, che avrebbe rafforzato una supremazia comunque già nei fatti. Se all'esterno sembrava qualcos'altro, era perché chi parla con la propria solo voce ha meno ascolto di chi disponga del megafono.
I derby si vincono, si perdono, la storia procede per svolte e sobbalzi. Oggi questa partita non è più una sfida tra due visioni della città, ma l'illusiorio intermezzo nella fiera di Sant'Agata permanente irpino-romanesca, con i tifosi ridotti a comparse inerti.
Non cambierà nulla, quindi, neanche alle cinque della sera di domenica. Lo striscione più squillante degli ultimi anni era nella Nord e forse oggi sarebbe un fattore ecumenico: «Il nostro derby è contro di te: vattene». Il campionato più bello? Sarà sempre quello del prossimo anno. Intanto la Sampdoria, per i sampdoriani veri e per fortuna ce ne sono ancora, resta sempre quel che era stata fin dall'inizio, soprattutto nei derby: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
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Essere sampdoriano è "uno slancio del cuore contro l'imposizione dinastica"
"I nostri numeri contro la propaganda. E una visione alternativa di Genova"
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