Anche io ho guardato con attenzione il film sulla vita di Fabrizio De Andrè, che la Rai ha trasmesso in due puntate, quasi quattro ore dedicate al nostro indimenticabile Faber. Lo spirito con cui si guarda una ricostruzione come quella è sempre incerto tra la nostalgia, l'orgoglio verso chi ti ha dato belle emozioni e la verifica se ci sono stati tradimenti nella narrazione filmica rispetto a una realtà così vicina nel tempo, quasi palpabile.
Fabrizio, la sua voce, la sua chitarria, la sua faccia, il suo ciuffo sugli occhi, la sua città che, come hanno splendidamente raccontato Patrizia Traverso e Stefano Tettamanti nel loro libro, era sua moglie: come finiscono sullo schermo?
Quello che più mi ha colpito è la prevalenza delle critiche un po' dilagate sui social, sopratutto da parte di genovesi, per il fatto che il De Andrè televisivo non parlava con accento genovese e che, anzi, la nostra cantilena compariva malamente e raramente in tutto il filmato. Come si fa a far parlare Faber con accento romanesco? - si sono lamentati. Per non dire delle critiche più drastiche su tutto il film: una boiata pazzesca, ha scritto qualcuno, “copiando” Paolo Villaggio, che è uno dei protagonisti del racconto anch'esso con l'accento sbagliato....
A me invece il De Andrè arrivato nelle case con la tv è piaciuto e vedo in queste, ed altre critiche, la inevitabile espressione dell'immarcescibile e perfino simpatico snobismo genovese. Siamo riservati, un po' “stundai” (termine quasi intraducibile), sempre dotati di un ferreo understatment, ma se si toccano le corde più intime della genovesità, allora reagiamo subito. E il dialetto, il tono, l'inflessione fanno parte di questa intangibile intimità.
Rifare un personaggio così complesso come De Andrè, mentre il suo canto, la sua voce, i suoi suoni ci riempiono ancora la vita, non era facile. Come non era facile tirarlo fuori da un ambiente genovese molto definito, tra la Villa Paradiso, i caruggi affascinanti, i salotti borghesi, le pietre di Boccadasse, le luci del porto, quella famiglia con un padre tanto forte e al contempo aperto, gli amici un po' scapestrati, il mondo della musica..... Il film ci è riuscito mettendo bene nella macchina del tempo quegli anni Sessanta-Settanta di un'altra città, rispetto a quella di oggi, nella quale uno come Fabrizio viveva il suo tormento vocazionale e creativo, sempre con quella sigaretta in mano e quel bicchiere da riempire. Sempre con il ciuffo trasversale sugli occhi.
Non avremo avuto la perfezione della ricostruzione, impossibile se di mezzo c'è, appunto, un mito, ma Genova si è vista restituire, non solo sullo sfondo del racconto di Fabrizio, la sua immagine più spettacolare e genetica, dal ventre dei caruggi, ai tramonti sulla Lanterna, alle complessità sociali, a un certo aplomb estetico negli abiti e nei luoghi, con la colonna sonora che tutti amano.
Non solo uno spot di due serate tv, come un po' banalmente qualcuno potrebbe commercialmente rivendicare, ma qualcosa di più: l'dentità di un grande personaggio nel suo habitat ed nel percorso delle sue ispirazioni artistiche, che anche senza cocina e con qualche belin di meno nel dialogo ci fa sentire orgogliosi del fatto che sia uno dei nostri.
cronaca
Gli snobismi dei genovesi e il mito ricostruito di De Andrè
Rifare un personaggio complesso come Faber non era facile
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