Nella migliore delle ipotesi è stato un pasticcione. Nella peggiore, è stato - ed è - in malafede. Comunque la si giri, da questa prima fase della storia brutta dell'Ilva il governo esce male. Malissimo.
Aver fatto saltare il banco dell'accordo con Arcelor Mittal, perché l'azienda vuole tagliare 4.000 posti e riassumere gli altri dipendenti senza riconoscere il pregresso di anzianità e quant'altro, all'apparenza è un gesto di forza, a tutela dei lavoratori. Invece, appunto, è solo apparenza.
Qui possono essere accadute solo due cose, entrambe gravi. La prima: il governo non si è preoccupato di seguire la gestazione del piano industriale della futura Ilva e si è trovato spiazzato quando è spuntato in tutta la sua dirompenza. Attenzione, però, che il punto di rottura non è stato il numero degli esuberi, bensì l'applicazione del Jobs Act da parte dell'azienda.
La primissima reazione del ministro Calenda, infatti, è stata fredda verso la rivolta dei sindacati: "Se salta questa intesa, la prossima sarà peggiorativa". Poi è stato informato del casino sulle riassunzioni e allora ha virato brutalmente: "Così non si comincia neanche a discutere". Dunque, sembra proprio che il governo non sapesse. Ed è molto male, perché vuol dire che nessuno ha tenuto i contatti necessari con Arcelor Mittal in modo da evitare che si producesse una grana del genere.
La seconda cosa che può essere avvenuta è che il governo sapesse e che abbia sottovalutato le reazioni o che scientemente abbia voluto che si scatenasse la bufera per poi far vedere la propria vicinanza ai lavoratori. Per incassare un po' di consenso. Da questo punto di vista, la cartina di tornasole può essere l'atteggiamento dell'azienda, che definisce "sorprendente" la posizione assunta dal governo.
In ogni caso, come detto, il nostro esecutivo ne esce male. E con la credibilità ai minimi. La sorpresa di Arcelor Mittal, infatti, può essere dettata anche da un altro fatto: il governo vara il Jobs Act, ne decanta per anni i benefici effetti, poi quando un'azienda decide di applicarlo risponde picche perché il modo non gli piace.
Ma il modo è legale, legalissimo, e mette a nudo il re: quella legge, al netto della cancellazione dell'Articolo 18, è fasulla nel creare lavoro e può diventare strumento di precarizzazione o di danneggiamento per i lavoratori. Non ci voleva un genio per capirlo, bastava sapere di che cosa si stesse parlando. Come in altre vicende, tipo la presunta cancellazione delle Province o la presunta riduzione della presenza politica con il taglio delle partecipate, che rischia invece di tradursi in un altro bagno di sangue occupazionale.
Non solo. In questo giochino che tiene conto del consenso elettorale più di ogni altra cosa, il governo mostra una sensibilità alla piazza che indebolisce, ad esempio, l'ala dialogante del sindacato e che casomai porterà acqua alla causa di chi ritiene che urlando e mandando "affa" il prossimo si possa ottenere molto dalla politica (leggi Pd).
In realtà, sull'Ilva siamo solo all'inizio della partita. E il risveglio del governo potrebbe rivelarsi comunque tardivo, vista la (mancata) gestione complessiva del dossier. Che per Genova, non è purtroppo dissimile da altri, ricordando Ericsson piuttosto che Piaggio Aerospace e il riassetto di Leonardo-Finmeccanica.
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Il caso Ilva mette il re a nudo: governo incapace o in malafede
Non ha gestito il dossier o sapeva e ora cavalca la protesta
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