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Nel 1969, un film francese di Jacques Deray, ‘La piscina’, ottenne un successo che andò ben al di là dei suoi meriti effettivi affidandosi al lato torbido del rapporto tra due coppie che si contrapponevano in un microcosmo di lusso e ostentazione. Il resto lo facevano il fascino tenebroso di Alain Delon, il seno e il lato B mostrati generosamente da Romy Schneider e lo sguardo da ninfetta di una giovane Jane Birkin.

‘A bigger splash’, di Luca Guadagnino, presentato in concorso alla Mostra di Venezia dello scorso settembre, ne è il remake. Se vogliamo, anche dal punto di vista del risultato finale, ed è un peccato, perché le premesse per fare bene non mancavano.

Rimandando nel titolo all’omonimo docufilm di David Hockney sui Rolling Stones, è ambientato nell’isola di Pantelleria dove la leggenda del rock Marianne Lane, reduce da un intervento alla gola che le impedisce quasi di parlare, è in vacanza con il compagno Paul quando arriva inaspettatamente Harry, produttore discografico iconoclasta nonché suo ex, insieme alla figlia Penelope, provocando un girotondo di situazioni che finiranno per deflagrare: quattro persone rinchiuse in una sorta di stanza mentale che è la villa in cui si svolge l’azione con il dramma dei migranti sullo sfondo visti però con una certa superficialità, come una semplice notizia di cronaca, una minaccia o un comodo capro espiatorio.

Rinuncia, rifiuto, aggressività nei rapporti: questi i temi che fino a un certo punto, bisogna dire, tra improvvisi cambiamenti di emozione e una tensione erotica che progressivamente aumenta, funzionano, prima che il film deragli sul grottesco. Ed è un peccato che ciò avvenga con l’incolpevole partecipazione di Corrado Guzzanti nel ruolo di un macchiettistico ufficiale dei carabinieri, quasi ai livelli del Catarella di Montalbano, anche perché il resto del cast (Ralph Fiennes, Tilda Swinton, Dakota Johnson e Matthias Schoenaerts) regge.

Guadagnino, non c’è dubbio, sa come muovere una macchina da presa, così come non c’è dubbio che il modello sia ‘L’avventura’, anche se il suo ritmo frenetico è lontano mille miglia dall’austera compostezza di Antonioni. Ma al di là di tutto quell’ultima parte che culmina con un epilogo a tarallucci e vino quando di mezzo c’è un omicidio, grida vendetta.