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Alla mostra di Venezia il nuovo film di Thomas McCarthy
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Diciamo che oggi chi volesse vedere uno dei film presentati nelle sezioni più importanti non rimarrebbe comunque deluso e già questo per la Mostra appena iniziata è un buon viatico. A cominciare da Spotlight di Thomas McCarthy (fuori concorso) che riporta sugli schermi del Lido a un anno di distanza Michael Keaton, nel 2014 inaugurò la manifestazione con Birdman di Gonzales Inarritu che poi fu il trionfatore della serata degli Oscar, nel cast insieme a Mark Ruffalo, Rachel MacAdams e Stanley Tucci.

Se vogliamo, rispetto ad Everest, l’altra faccia del blockbuster americano, quella più impegnata e convincente incentrato com’è sull’inchiesta di un gruppo di giornalisti del Boston Globe che tra il 2001 e il 2002 scoperchiarono un verminaio di abusi sessuali su minori che alla fine vide coinvolti una novantina di sacerdoti protetti per anni dalle alte gerarchie della Chiesa.

Un film che si inserisce di diritto nel solco del cinema americano di impegno sociale sulla scia dei Pakula, dei Lumet e dei Pollack e che inevitabilmente per spirito e ambientazione ricorda Tutti gli uomini del presidente. Non siamo a quei livelli e tuttavia il film è solido, sorretto da un buon ritmo e ben interpretato.

Che poi lasci anche un sapore amaro, questo lo si deve ad altro: il cardinale Bernard Francis Law, arcivescovo di Boston dal 1984 al 2002, che aveva coperto volontariamente lo scandalo, dopo essere stato costretto a dimettersi, due anni dopo è stato trasferito a Roma da Giovanni Paolo II alla Basilica di S. Maria Maggiore, una delle chiese più importanti del mondo.

Passando al concorso, sarà meglio cominciare a conoscerlo, questo Cary Fukunaga, nato in California da padre giapponese e madre svedese, regista di alcuni episodi della serie televisiva True detective, che al suo terzo lungometraggio - Beasts of no nation – trasponendo un romanzo del nigeriano Uzodinma Iwealaci ci regala un film che si candida fin d’ora ad un premio finale, una pellicola che comincia come una commedia ma che si trasforma ben presto in un incubo senza fine nel quale rimane imprigionato il giovanissimo Ugu che in un villaggio di un paese africano dove è in corso una guerra civile, dopo aver assistito al brutale omicidio del padre per salvare la propria vita si ritrova a nove anni a diventare un bambino soldato diventando una perfetta macchina bellica ed essendone del tutto consapevole, tanto che a un certo punto afferma: “L’unico modo per non combattere più è morire”.

Storia dunque, come si dice in questi casi, di formazione e di crescita che con la sua cruda brutalità mai però fine a se stessa ha il merito di scuotere le nostre coscienze, dove la perdita dell’innocenza dell’infanzia è un marchio che si imprime indelebile sulla pelle di tutti noi.

Inferiore ma comunque dignitoso è anche il secondo film in concorso oggi, Looking for Grace dell’australiana Sue Brooks dove la fuga da casa di una sedicenne dà il via ad un curioso gioco di scatole cinesi narrative e di scarti temporali che coinvolgono tutti coloro che interverranno nella vicenda, a partire dai genitori, in una ragnatela di tradimenti, bugie e omissioni. Cercando di dare un senso al caos della vita.