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Il commento
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Il premier Giuseppe Conte infine ha rotto gli indugi e annunciato che al prossimo Consiglio dei ministri chiederà la revoca del sottosegretario Armando Siri, indagato dalla magistratura per corruzione. La domanda, però, non è (mai stata) se Siri debba dimettersi o, non ottemperando a questo semplice obbligo morale, essere allontanato dal governo.


La domanda è: perché il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini difende così pervicacemente Siri, in sfregio alle più elementari regole del buon senso? Lo fa anche di fronte all'atto politico di Conte, seppur in modo più edulcorato e, almeno per ora, senza arrivare a minacciare una crisi di governo nel nome di Siri. Troppo vicine le elezioni europee e le amministrative del 26 maggio per compiere una scelta così dirompente, che sarebbe un regalo in piena regola all'alleato-antagonista grillino. Sia chiaro, qui non si tratta di sposare la linea presuntamente giustizialista del Movimento 5 Stelle che fin dall'esplodere del problema avrebbe voluto le dimissioni di Siri. Semmai, è il caso di fissare, una volta per tutte, alcuni punti cardine della vicenda.


Primo: avendo patteggiato un anno e otto mesi per bancarotta fraudolenta, sentenza definitiva, Siri non sarebbe neppure dovuto entrare nel governo. E ai 5 Stelle bisogna casomai rimproverare di muoversi tardivamente nel pretendere trasparenza di comportamenti da parte di ogni rappresentante delle istituzioni. La rapidità con cui il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha ritirato le deleghe al sottosegretario, dunque, è solo una parziale resipiscenza.

Secondo: se un esponente di governo viene accusato di un reato grave, anche politicamente, come la corruzione, dovrebbe essere acquisito pacificamente da tutti, a cominciare dal diretto interessato, che l'indagato deve dimettersi. C'è una questione di opportunità politica talmente enorme che pure un alieno se ne accorgerebbe.

Terzo: che cosa sarebbe accaduto se si fosse saputo che la parte relativa al programma energetico è stata scritta più o meno direttamente da un interessato? Un pandemonio, ovvio. Invece tutti zitti, sebbene con Siri, attraverso il suo "compagno di merende" Paolo Arata, sia accaduto esattamente questo. E questo non va bene, anche al netto dei presunti legami di Arata che possono ricondurre al boss mafioso Matteo Messina Denaro.

A fronte di tutto ciò, e di altre considerazioni che si potrebbero fare, Salvini insiste nel difendere Siri. Lo fa sostenendo che se uno dovesse dimettersi appena indagato, finirebbe che sarebbe la magistratura a stabilire chi può entrare in un governo. E restarci. Ma questo non è vero. O meglio, lo è solo partendo dal presupposto che i Pubblici ministeri sono in malafede e quindi possono mettersi a indagare a destra e a manca se solo qualcuno sta loro politicamente sulle scatole. Come in tutti gli altri, anche nel cesto dei Pm ci sarà la mela marcia, ma nulla più. Inoltre, Salvini dovrebbe pure ricordare che nel nostro Paese continua ad esistere l'obbligatorietà dell'azione penale, quindi...

Andando oltre, non sono neppure accettabili affermazioni secondo le quali Siri potrà tornare al proprio posto quando venisse dimostrata la sua piena estraneità alla corruzione per cui è indagato. No, Siri non può più rientrare nel governo. Perché è un bancarottiere, e questo non può cancellarlo nessuno. E perché ha tentato, a colpi di emendamenti, di favorire in modo spudorato un privato, facendo così cadere quel rapporto di fiducia che deve esistere all'interno delle istituzioni e fra le istituzioni e la comunità rappresentata.

Siccome Salvini sarà criticabile come ognuno di noi, ma non è scemo (dal latino "semis": metà, mancante) si torna alla domanda iniziale: perché difende con tanta ostinazione Siri? Gilberto Govi risponderebbe nel modo più convincente: ci avrà le sue buone ragioni. Guardando al 26 maggio e soprattutto al dopo, il vicepremier e leader della Lega, però, non dimentichi che anche il cittadino-elettore non è scemo.