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Parigi guarda a Berlino, non a Roma. E per noi saranno guai
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Francamente si stenta a capire il grande entusiasmo che alle latitudini del Pd di Matteo Renzi gira sulla vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali in Francia. Al di là dell'appartenenza generazionale - il nuovo inquilino dell'Eliseo ha 39 anni, il nostro ex premier ha da poco scollinato i 40 - non si vede proprio quali siano i tratti comuni fra Macron e Renzi. A cominciare dal dato culturale e formativo.

Soprattutto, però, si stenta a credere che chi ambisce a riconquistare le chiavi di Palazzo Chigi possa tanto bellamente ignorare i problemi che l'arrivo di Macron sulla scena politica europea possa provocare al nostro Paese. Di una cosa siamo già assolutamente certi: il nuovo presidente francese, anche per esigenze di politica interna, avrà come primo obiettivo quello di rilanciare e rafforzare l'asse con la Germania. Questo significa che Roma - sia con l'attuale governo Gentiloni sia con un eventuale successivo gabinetto guidato da Renzi - difficilmente potrà contare sulla sponda di Parigi per ottenere un reale allentamento della politica del rigore portata avanti da Berlino.

Una politica, attenzione, che però non è responsabilità di Bruxelles e della trazione europea tedesca, bensì dell'insipienza italiana nell'affrontare le questioni. Emblematico, in tal senso, il caso del bail in, cioè delle regole per cui in caso di un crac bancario a pagare sono prima di tutti azionisti e obbligazionisti. Oggi gli stessi Pd e Renzi strillano contro il blocco di Bruxelles su qualsiasi intervento pubblico di supporto e/o salvataggio del sistema bancario, contestando proprio a Germania e Francia di aver invece fatto massicce iniezioni di denaro alle loro banche.

Ciò che viene strumentalmente e puntualmente non detto, in Italia, è che Roma avrebbe potuto fare la stessa cosa, perché Berlino e Parigi sono intervenute quando ancora il bail in non era diventato legge comunitaria. Sarebbe bastato che nel 2014 Renzi avesse utilizzato a sostegno delle banche il denaro, anziché giocare sui bonus per accattivarsi le simpatie dell'elettorato, per fare esattamente ciò che hanno fatto Francia e Germania. Poi, dopo che il bail in è stato approvato anche con la nostra firma, gli spazi si sono chiusi, ma la colpa di chi è?

Questa vicenda Macron la conosce benissimo come conosce gli obblighi in capo all'Italia relativamente alle clausole di salvaguardia - fra cui l'aumento dell'Iva al 25 e forse 28 per cento per coprire le spese fatte in questi anni - e all'introduzione definitiva del Fiscal Compact, in virtù del quale dovremo ridurre ogni anno del 5 per cento il nostro debito pubblico e far corrispondere ad ogni spesa di investimento una eguale riduzione della spesa pubblica su un altro versante.

Questi impegni ce li troveremo di fronte tra la fine di quest'anno e il 2018 e spiegano perché Renzi vorrebbe andare al voto prima, per non pagare il dazio di scelte dolorose. Ma, soprattutto: siamo certi che quando ci presenteremo a Bruxelles con il cappello in mano, pur facendo finta di mostrare i muscoli, Macron sarà più sensibile ai nostri problemi che alla condivisione di una linea politica di serietà come ci verrà richiesta dalla cancelliera Angela Merkel?

La risposta, ovviamente, è che non esiste alcuna certezza di ciò. Anzi, i prodromi della politica seguita dal nuovo presidente francese sembrano andare esattamente nella strada opposta. Abbiamo una sola speranza: che Macron ci dia una mano considerando i grandi interessi - leggasi miliardi di crediti - che i francesi hanno in Italia. Abbastanza perché il nuovo capo dell'Eliseo voglia evitare un crac italiano, ma non sufficienti per indurlo a considerare Roma un importante alleato. Per quel ruolo Parigi avrà un unico interlocutore. Cioè Berlino. Oggi, allora, che cosa abbiamo da festeggiare?