cronaca

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Un battito di ciglia. Quattro secondi di boato e terra che trema sotto i piedi e non c’era più. Un attimo prima silenzio tutto intorno, si sentiva solo il canto delle rondini, solo loro volavano in cielo e una paio di gabbiani. Solo loro volavano davanti a quelle pile 10 e 11 del Ponte Morandi che avevano i minuti contati.
Solo le rondini tra me e il moncone est del Morandi poi i tre suoni delle sirene lontani, l’ultimo lungo come un lamento e alla mente mi sono tornate le sirene del porto. Una sorta di ultimo saluto. E anche il garrito delle rondini così incessante, continuo, forte lo immagino come un saluto al ponte che da lì a pochi istanti non sarebbe più esistito.


Secondi che sembrano minuti e poi quel boato che non so paragonare a niente perché così profondo, intenso che non è possibile definire, e l’onda d’urto che me l’ha fatto arrivare dritto allo stomaco e ancora me lo sento dentro. Così come davanti agli occhi ho ancora quei muri d’acqua che si sono alzati a distanza di microsecondi, prima da sopra e poi da sotto. Per una frazione di secondo c’erano solo queste colonne che sembravano fontane di giochi d’acqua. Poi il fuoco e nettamente il ponte che crollava.
I miei occhi, dopo l’immagine totale, si sono concentrati sulla pila 10 l’ultima a crollare, ad accartocciarsi e ho rivisto, in quell’istante, quel video amatoriale fatto alle 11.36 del 14 agosto mentre crollava la pila 9 e il mio pensiero è andato alle 43 vittime, a 43 vite spezzate e alle loro famiglie.


Il 28 giugno non è stata una festa, non è stato uno spettacolo, sicuramente ha rappresentato un esempio di capacità tecnica, ingegneristica unica nel mondo, ma il 28 giugno è stato per me essere catapultata di nuovo nel dolore assoluto di quel 14 agosto. Certo il ponte, quelle due pile andavano abbattute, perché ne ha bisogno il cantiere per il nuovo viadotto, ne ha bisogno Genova e non solo, ne abbiamo bisogno tutti.
Io quella mattina in diretta dalle 5.30 dalla parte sud di via Fillak raccontando le persone che lasciavano le proprie case, guardando quel moncone che da mesi ogni giorno vedevo e raccontavo non mi vergogno a dire che ho fatto fatica. Fatica perché il cuore era rotto, fatica perché sentivo una mano stringermi lo stomaco. Sapevo che era la cosa giusta ma in me c’era il dolore, l’incredulità, la rabbia di quel 14 agosto e che, forse, sono ancora dentro di me e non ho ancora buttato fuori.


Un battito di ciglia e non c’era più. Non c’erano più quelle pile 10 e 11 osservate speciali da mesi, non c’erano più gli stralli colorati al fine delle indagini, non c’erano più quei due ‘triangoli’ che avevo visto da sempre. Non c’erano più quelle pile così imponenti che dal giorno del crollo tutte le volte, che ero sotto o vicino, mi hanno fatto pensare: “Ma come è stato possibile?”
I minuti di ritardo prima dell’esplosione non li potrò mai dimenticare come non potrò mai dimenticare il terrazzino ricoperto di una guaina di catrame del Campasso sul quale io e Francesca Cangiotti ci siamo letteralmente arrampicate e ‘appollaiate’ per oltre un’ora in attesa dell’esplosione. Non mi vergogno a dire che le mie mani hanno tremato prima e anche dopo l’esplosione, così come il mio cuore galoppava fino a sentirlo in gola nel momento del boato. Non mi vergogno a dire che su quel non-terrazzino che dava nel vuoto ho indossato la mascherina anche se poi non è servita perché la polvere lì non è arrivata. Non mi vergogno a dire che il caldo estremo di quel momento mi rendeva difficile respirare.
Non mi vergogno a dire che mi sono scese le lacrime perché in quei pochi secondi ho visto i visi delle 43 vittime. Il dolore delle loro famiglie che non è immaginabile. Ho anche visto il dolore delle tante persone che ho incontrato in questi mesi di racconto di quello che è rimasto intorno al Morandi.


Non potrò mai dimenticare le 9.37 del 28 giugno e di quella giornata non potrò dimenticare nulla. Porto tutto dentro di me perché so che è un giorno che era necessario a Genova, al futuro.
Il 28 giugno è anche un giorno che ho sopportato meglio psicologicamente e fisicamente grazie alla gentilezza e all’affetto di residenti del Campasso, di via Fillak e non solo. C’è chi ha aperto la porta di casa e ha ‘offerto’ la migliore inquadratura possibile, chi mi ha portato acqua, chi un ghiacciolo, chi mi ha chiamato dalla finestra per offrirmi di farmi una doccia e rinfrescarmi, c’è chi mi ha fatto ricaricare i cellulari e le batterie, chi mi ha fatto usare il bagno, chi passando mi sorrideva e diceva ‘Grazie’, chi mi chiedeva ‘Ma sei ancora qui? Come stai?” perché da quel 14 agosto i volti di chi vive e lavora intorno al ponte sono diventati non più solo una storia da raccontare ma persone che conosco per nome.


Il 28 giugno è stata una giornata lunghissima iniziata molto prima dell’alba e finita in tarda serata. Una giornata caldissima, difficile, emotivamente tosta , che terrò sempre dentro di me.
Così come dentro di me in ogni racconto, in ogni intervista ho nel cuore le 43 vittime.