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Nel tempo la convinzione maturata era che questo articolo non mi sarebbe capitato di scriverlo. Perché ci sono state altre circostanze, la più concreta una decina d’anni fa, in cui Il Secolo XIX è stato sul punto di cambiare l’azionista di riferimento. Allora come adesso, l’interlocutore era La Stampa. Un negoziato arrivato, all’epoca, davvero a un passo dalla conclusione. A condizioni ben diverse, almeno a quanto si seppe: il 35% in mano alla famiglia Perrone, il 65 assegnato agli Agnelli. Non se ne fece nulla, però, e la cosa si è trascinata negli anni, con abboccamenti proseguiti fra alti e bassi. Fino all’annuncio: Secolo XIX e Stampa si fondono. Lo fanno le società, i due giornali rimarranno rami d’azienda separati, ma la proprietà sarà unica. In capo a un’editrice in tutta evidenza sbilanciata a favore di Torino: 77% posseduto dalla Fiat e 23 da Carlo Perrone. Il quale sarà il vicepresidente di John Elkann.


Un’operazione choc. E che, vien da dire, tanto sarebbe valso realizzare dieci anni fa, guardandola dall’angolatura genovese. Lo scenario, però, è talmente mutato – allora si sarebbero unite due forze, oggi provano a spalleggiarsi due debolezze - che sarebbe ingeneroso tranciare un simile giudizio. Soprattutto conoscendo quali e quanti sforzi sono stati profusi da Carlo Perrone e da tutte le componenti aziendali di Sep-Il Secolo XIX per rimanere in linea di galleggiamento e continuare a competere in un mercato sempre più difficile e oneroso.


La vicenda, allora, va osservata da diversi punti di vista. Quello industriale induce a ritenere che la fusione possa essere un buon salvagente. Le sinergie che si creeranno a livello di strutture operative e produttive, infatti, porteranno un abbattimento dei costi, essenziale in una fase come quella attuale. Sono, anche però, la dimostrazione plastica di un mercato costretto a concentrarsi perché profondamente distorto. Professionalmente sono cresciuto al Secolo, ho percorso la mia carriera fino alla vicedirezione avendo come faro la concorrenza da battere. E a quella concorrenza apparteneva La Stampa. Per i molti che hanno avuto la mia storia professionale, è quasi blasfemo che ora quelle due testate debbano sentirsi la stessa cosa, un’unica cosa. A parti rovesciate, ovviamente, immagino che lo stesso stato d’animo lo viva chi è storicamente stato sull’altra sponda.


Forse, però, non c’era altra via d’uscita. Anzi, a osservare la vicenda con distacco, quel forse è fuorviante. Altre vie d’uscita non ce n’erano. Il rammarico è che un editore puro come Perrone debba ammainare la bandiera. Le ha provate un po’ tutte, dal settimo numero del lunedì alla radio, alla redazione multimediale. Una sfida continua e infinita, a volte anche sbagliando perché non sbaglia soltanto chi non fa, ma sempre nel segno di una spinta al rinnovamento capace di cogliere anche la più piccola delle occasioni per rimanere in piedi. Con lui lo stesso sforzo titanico lo hanno compiuto i giornalisti, i tipografi, gli amministrativi, i lavoratori del centro stampa. Uno sforzo accompagnato da grandi sacrifici, fatto di prepensionamenti e, da ultimo, contratti di solidarietà.


Ma non c’è Davide che da solo possa battere il Golia del distorto mercato dell’informazione. Una giungla nella quale i grandi network televisivi hanno fatto quasi tabula rasa del fatturato pubblicitario, aiutati nel misfatto da una Rai che incassa il canone per un servizio pubblico televisivo che non svolge (o svolge benissimo al servizio dei partiti e dei ras di partito) e allo stesso tempo rastrella pubblicità. Una distorsione fattasi drammatica con la crisi economica, che ha pure ridotto la torta pubblicitaria. In simili condizioni, un imprenditore da solo non può reggere a lungo. E non possono farlo le persone che nella sua azienda ci lavorano.


Perrone, Il Secolo XIX, la gente del Secolo XIX ce l’hanno messa tutta. Ora si consegnano a una svolta epocale. Per loro, più che un tramonto può essere l’alba di un nuovo rinascimento. E, comunque, l’editore del Decimono ha scelto con criterio: non un socio qualsiasi che gli garantisse un incasso e poi chi s’è visto s’è visto, ma quelle che restano la prima azienda privata e la prima famiglia d’Italia. E’ il rispetto che sta scritto nel suo dna per la storia ultracentenaria di questo giornale e sono certo che la dignità con cui tutti, storicamente, hanno indossato quella maglietta sarà la prima garanzia nel momento in cui, fatalmente, il nuovo assetto societario farà sentire la propria influenza sulla linea editoriale. Non sarà subito, non sarà presto, ma sarà. 

In quel momento, probabilmente, la Genova sonnacchiosa e silente di fronte all’evento capirà che cosa le è successo. E’ un’altra azienda che vola via. Un’azienda importante perché produce libertà di parola e di scritto, produce cultura e classe intellettuale, politica e democrazia. Un’azienda che proprio per questa ragione, comunque la si pensi sui direttori (e sui vicedirettori) che si sono susseguiti sulla tolda di comando, la città avrebbe fatto bene a tenersi stretta. Comprendendo le difficoltà e il bisogno di sostegno che meritava quando ancora si sarebbe potuto salvare il suo meraviglioso, e mai abbastanza apprezzato, “stand alone”.

Un film già visto, perché altre aziende che avrebbero meritato la stessa attenzione e la stessa cura sono volate via prima del Decimonono. E il pensiero corre a un’altra testata gloriosa, il Corriere Mercantile, finora alleato con La Stampa. Che fine farà? Credevo che non l'avrei mai dovuto scrivere questo articolo. Invece sono qui alla tastiera. Non esistono più certezze.