salute e medicina

Una drammatica testimonianza
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Alcuni anni fa sono stato ricoverato per un intervento di routine. L’intervento è andato bene e la ripresa post-operatoria è stata molto rapida. Quattro giorni dopo la rimozione del catetere, ho iniziato a manifestare una leggera febbre. Nulla di preoccupante, all’inizio.
Nell’arco di 24 ore, però, la febbre ha avuto una drammatica escalation. Con il brusco rialzo della temperatura, le forze iniziavano a mancarmi. Non riuscivo letteralmente a stare in piedi.
La diagnosi è stata rapida: i medici hanno riscontrato un’infezione antibiotico-resistente dovuta al super-batterio della Klebsiella Pneumoniae e hanno subito avviato la terapia antibiotica.
Come medico ero del tutto consapevole dei pericoli che si corrono con questo tipo di infezioni che, purtroppo, in circa il 30% dei casi sono fatali. Mi avevano assicurato che mi trovavo fuori dalle categorie a maggior rischio di morte come ad esempio i pazienti immunodepressi. Ma questo non è stato sufficiente a tranquillizzarmi. La paura era alimentata dal mio stato fisico: non mi ero mai sentito così male in vita mia. Pensavo che la Klebsiella alla fine avrebbe vinto. Ero convinto di non riuscire a sopravvivere. Questo pensiero mi ha accompagnato nelle lunghe ore di degenza in attesa che si decidesse la partita tra il superbatterio e gli antibiotici. Alla fine, però, la combinazione di antibiotici sembrava aver avuto effetto: la febbre è iniziata a scendere e nel giro di due settimane sono stato dimesso.

Ma era solo il primo tempo. A soli cinque giorni dalla dimissione, la febbre è ritornata. Mi sono precipitato al pronto soccorso di un’altra struttura ospedaliera rispetto a quella in cui avevo effettuato l’intervento. Ho avuto la fortuna di essere visitato subito da un infettivologo che, vista la precedente cartella clinica, mi ha prescritto una terapia a base di tre antibiotici: tigeciclina, colistina e meropenem. La paura è subito tornata: la febbre non diminuiva nonostante la terapia. Stavo male anche se non come la volta precedente. Mi sentivo molto debole.
Tutto intorno a me alimentava i miei timori, anche le cose che mi davano sicurezza: nel nuovo ospedale sono stato ricoverato in una stanza singola, le persone che venivano a farmi visita, pochi parenti e amici, non potevano toccarmi, dovevano indossare delle protezioni perché si trattava di un batterio che si contrae per contatto e non per via aerea. Insomma, capivo che in quell’ospedale venivano scrupolosamente seguiti tutti i protocolli, ma al tempo stesso temevo di contrarre altre malattie infettive e ovviamente mi preoccupavo anche per chi mi veniva a far visita.

Dopo 5 giorni la febbre è scesa. Sono stato finalmente trasferito in una stanza dove erano ricoverati altri pazienti che avevano vissuto le mie stesse sfortunate vicende. Alla fine sono stato dimesso.
Era finita la febbre, non la paura: nonostante ce l’avessi fatta, dopo questa seconda dimissione ero molto preoccupato perché sapevo che se si fosse ripresentata l’infezione sarebbe stato molto più complicato trattarla, in quanto voleva dire che era diventata resistente all’unico antibiotico in grado di fronteggiarla. Invece, fortunatamente, le cose hanno iniziato ad andare per il meglio.
Ma ci è voluto un mese dopo la dimissione per recuperare pienamente le forze.

Quando mi sono sentito sicuro, mi sono fatto anche molte domande. Come ho contratto il super-batterio? L’ipotesi più probabile è che nel primo ospedale, dove ho effettuato l’intervento, le procedure di disinfezione (del catetere, dell’endoscopio, del personale) non siano state adeguate. Nessuno può escludere che il batterio fosse già presente sulle mie mucose e che siano state le procedure operatorie o post operatorie a permettere la sua diffusione in circolo, ma è un’ipotesi poco probabile.
Perché la prima cura non ha funzionato? Sicuramente c’è stata una carenza dal punto di vista infettivologico nella scelta della terapia: non appena i medici hanno appurato che la febbre stava scendendo, hanno pensato che la malattia stesse regredendo mentre non era così.

Oggi questa storia è alle mie spalle, ma ne parlo volentieri a simposi e congressi medici perché anche la mia esperienza può aiutare a migliorare la gestione delle infezioni resistenti agli antibiotici.