porti e logistica

Ecco cos'è davvero la "Nuova Via della Seta": dobbiamo avere paura?
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Si chiama “One Belt One Road” il colossale progetto di investimento cinese da subito ribattezzato “Nuova Via della Seta”. Si tratta di un programma varato nel 2014 dal presidente Xi Jinping e che dovrebbe completarsi nel 2049: attraverso la belt and road la Cina punta ad ampliare la sua sfera di influenze nel bacino euroasiatico, a rendere più efficienti i collegamenti con l’Europa e a infrastrutturare anche zone remote del suo immenso territorio.

Sul piano pratico la Via della Seta comprende una serie di investimenti, tra cui la costruzione di una ferrovia (in larga parte già esistente) che colleghi l’estremo oriente con il cuore dell’Europa: lungo questa tratta le imprese cinesi hanno acquisito diversi snodi intermodali in Kazakistan, Uzbekistan, Azerbaijan, entrando così direttamente nei mercati esteri. Le acquisizioni si sono spinte fino all’Europa, con il porto del Pireo controllato dalla cinese Cosco, che in partnership con la danese Maersk gestirà anche il nuovo terminal di Vado. Ma la galassia delle partecipazioni è molto più vasta e comprende altri porti strategici come quelli di Marsiglia, Rotterdam, Anversa, fino al pacchetto di maggioranza dello scalo ferroviario di Madrid.

Chi critica questo immenso movimento di denaro e infrastrutture ricorda che tutte le aziende cinesi fanno sostanzialmente capo al Governo di Pechino, visto il modello economico della Repubblica Popolare. E quindi, in sostanza, vendere un’infrastruttura ai cinesi significa di fatto concederla a un Governo sovrano.
Ma c’è anche chi sottolinea l’importanza di non perdere un’occasione così ghiotta, fatta di fondi e soprattutto merci: molti, in Europa, fingono di guardare con sospetto alle mosse cinesi ma allo stesso tempo tutti stanno cercando di posizionarsi in modo da sfruttare le opportunità di business.

In Italia i porti considerati “core” lungo la Via della Seta marittima sono tre, Genova, Trieste e Venezia: il primo è quello geograficamente più interessante ma ancora non dispone delle infrastrutture per poter gestire un improvviso incremento del numero di container in arrivo e partenza. Quello più avanti, in questo ambito, è il porto di Trieste che è posizionato geograficamente peggio rispetto a Genova ma gode di migliori infrastrutture, soprattutto in campo ferroviario ed è storicamente il porto di riferimento dell’Impero Austro Ungarico, oggi cioè di tutta l’area industriale dell’Europa centrale.

Le Autorità di Sistema che gestiscono gli scali stanno adesso lavorando per non farsi trovare impreparate: la sfida è tra i porti italiani (i tre citati in particolare) e tra questi ultimi con quelli del cosiddetto “northern range”, cioè i terminal posizionati in Olanda e Germania che si affacciano sul mare del Nord. Tutti vogliono le merci cinesi in importazione e tutti vogliono un canale privilegiato per invadere il mercato della Repubblica Popolare in export.

L’Italia è adesso impegnata in un bilaterale con la Cina e in questa occasione il presidente Xi Jinping firmerà con le autorità italiane una serie di memorandum: non sono veri accordi vincolanti ma una strada tracciata verso un futuro più collaborativo.

L’Italia è il primo paese europeo a firmare documenti simili, ed è anche naturale che sia così: i porti del Mediterraneo (quelli della nostra penisola in testa) scontano un forte gap infrastrutturale con quelli del nord, le risorse economiche per recuperare posizioni scarseggiano e così, nello scacchiere geopolitico, è piuttosto normale che il nostro Governo cerchi sponde in Cina paese che, peraltro, vede nell’Italia un hub naturale, vista la sua posizione.

Sullo sfondo ci sono le critiche dei nostri partner europei: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha rassicurato gli alleati americani sulla fedeltà del nostro paese al patto atlantico e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiesto e ottenuto di stralciare alcuni punti dal memorandum, ritenuti forse prematuri o pericolosi per le nostre relazioni internazionali.

La vera preoccupazione dei nostri alleati è la cessione di infrastrutture sensibili, come quelle digitali (ad esempio il 5G). Diverso è invece il tema delle infrastrutture di terra, come i terminal portuali: bisogna infatti ricordare che nel nostro paese le banchine dei porti appartengono al demanio, cioè allo Stato, quindi nessuno, neppure la Cina, può formalmente acquistarle. Si può, come già avviene, ottenerle in concessione per un certo numero di anni, in cambio di precisi piani di investimento.

Per il cluster portuale, e per Genova in particolare, la collaborazione con il Governo di Pechino sembra davvero molto promettente: resta adesso da capire in cosa consistano davvero i documenti oggetto della firma:  "Il governo sta ultimando alcune verifiche sui testi che dovrebbero essere firmati, contiamo nella giornata di avere queste definitive verifiche per poi domani saperne di più", ha detto il presidente del porto Paolo Emilio Signorini che questa mattina ha parlato del prossimo meeting con una delegazione cinese a Roma sulla cosiddetta Via della Seta.

"Questo è il passo più importante che viene adottato  dopo il summit che è stato fatto lo scorso anno a Pechino - ha proseguito Signorini -. Le ricadute più operative con i singoli progetti direi che matureranno anche nei prossimi mesi" ha concluso il presidente dell'Autorità portuale del mar ligure occidentale.