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La figura dell'ex presidente del Genoa
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Dicono che quando gli hanno comunicato che il “suo” Genoa, la squadra di calcio della quale era stato presidente tra il 1975 e il 1985, socio per tanti anni prima, commissario dopo e tifoso sempre, aveva segnato un gol nella partita che lui non poteva vedere, perchè oramai cieco e poteva solo sentire dal suo letto di malato terminale, scio' Renzo, di nome completo Renzo Fossati, anni 85, abbia accennato con un gesto a un applauso, muovendo le mani. L'ultimo gesto di amore e di tifo per la passione della sua vita, prima di andarsene per sempre, da Genova e dal Genoa.

Da quando l'aveva venduto ad Aldo Spinelli, un self made man come lui, stessa razza, quasi stessa faccia, furba, naso sopraffino, in una trattativa che solo un genio della comicità genovese come Gilberto Govi potrebbe rappresentare, tra palanche vere e palanche promesse, strette di mano, dinieghi e stupori improvvisi, Fossati era rimasto appunto solo un tifoso, ma per l'universo mutante del tifo verso il cambio millenario e, più in generale, per la città, il Genoa era ancora, un qualche modo, suo.

Fossati ha sempre voluto dire Genoa, anche quando la società rossoblù attraversava le sue tempeste (tante) e i suoi trionfi (pochi), cambiava padroni, giocatori, classifiche categorie di appartenenza e mood rispetto alla città intorno.

“Ai tempi di Fossati....eh, quando c'era Fossati....alto che Fossati.....”: non c'è stato un presidente più citato nella storia ultracentenaria della squadra che oggi appartiene al joker Enrico Preziosi, il quale - guarda caso - anche lui è un self made man, condizioine che sembra necessariamente appartenere, salvo rarissime eccezioni, a chi possiede la prima società calcistica italiana per nascita e radici storiche.

Fossati, Spinelli, Preziosi, tutti e tre fatti e impostati da se stessi, tutti capaci di costruirsi un destino di imprenditori, partendo proprio dalla strada, Preziosi figlio di un orologiaio di Avellino, ex stradino della Reggio Calabria- Salerno, Spinelli mozzo di nave, figlio di un marittimo naufragato, Fossati, figlio di operai, partito dal quartiere popolare di Quezzi e mattone dopo mattone, diventato “l'impresario”.

Quale sia il mistero di questa appartenenza genovese-genoana di Fossati e del continuo ricorrere al suo nome, anche da parte dei suoi ex nemici e contestatori, che furono tanti, è presto spiegato. Fossati non era solo il presidente del Genoa, ombelico di una tifoseria, che - non se ne abbiano a male i supporter dell'altra squadra genovese, la Sampdoria - con tante radici ma sopratutto con quella radice nazionalpopolare molto forte: era anche il presidente di un popolo vero, quello genovese e genoano, di una città che quando lui era “u' presidente” aveva toccato il massimo dell'espansione demografica, quasi 870 mila abitanti e anche il massimo dell'esposizione abitativa, della costruzione di case, che era il suo mestiere. Tra la metà degli anni Settanta e gli Ottanta degli inizi del malessere genovese, la città si era gonfiata di mattoni, case, nuovi quartieri, nel sogno urbanistico policentrico.

Era la coda sempre più stretta del boom degli anni Sessanta, il finale di una ricostruzione post bellica quasi frenetica per la Superba, il cui centro storico si era vuotato di abitanti, dopo i bombardamenti bellici e l'abbandono dei caruggi. La febbre del mattone, che oggi leggiamo in tanti altri modi e che a Genova viene bollata ex post per il disastro idrogeologico che ha provocato sulle sue colline divorare dal cemento, dai tombamenti, aveva i suoi “maghi”.

Il Fossati Renzo era uno di questi maghi e il suo incontro con il Genoa, di cui era prima diventato socio in epoche già turbolente per il vecchio Grifo, era stato folgorante e molto producente: era come se quell'impresario sveglio, di poche parole, sempre pronunciate in genovese stretto, avesse trovato la formula giusta di un cemento simile a quello per tirare su, mattone dopo mattone, interi pezzi della città.

Quella Genova là, che cercava spazi per costruire case, era il suo pane e per uno, partito solo con la cazzuola in mano e la voglia di fare, la scia del boom edilizio era la pista giusta. Seguire la carriera “edilizia” di un uomo così è come trovare uno schema esemplare per ricostruire un'epoca che non vale solo per una città, per un caso urbanistico.

Fossati era un grande venditore, un costruttore, “dai e vai”, progettava, costruiva e vendeva con una velocità inarrestabile. “Avrebbe venduto igloo al Polo Nord” spiegano oggi i suoi concorrenti di allora. Figurarsi case in una Genova in cerca di tetti. Il suo terreno preferito era la famosa valle Bisagno, le sue delegazioni principali, come Molassana, i paesini sulle alture, come Pino Sottano e Pino Soprano, quella valle nella quale scorre quel fiume che trecentocinquanta giorni all'anno è un torrente secco in un alveo pietroso e qualche volta si scatena e diventa il killer delle alluvioni genovesi di cui si riempiono le cronache.

Ci sono interi quartieri firmati Fossati in questo pezzo di Genova sopratutto a monte, su per quella valle un po' triste che i vecchi genovesi bollavano come la “valle dei rifiuti”, con il cinismo classico dell'understatement zeneise. Nella valle Bisagno c'è il monumentale cimitero di Staglieno, poi c'erano i macelli comunali e un tempo c'era anche la Volpara, la prima grande discarica urbana, quando il problema nettezza urbana veniva risolto all'ingrosso.

Intorno colline verdi e quei piccoli paesi. Un paradiso appunto per costruire, per dare casa a chi la cercava e la pagava subito e la aveva rapidamente. Scio' Rensu non tradiva, rispettava i tempi. La sua vita era appunto costruire e poi la passione per il Genoa che avrebbe conquistato nel 1975.

Non indulgeva ad altro. “Era il classico battitore libero _ racconta Davide Viziano, uno dei grandi costruttori genovesi rimasto sulla scena, il cui padre, Attilio, negli anni di Fossati in sella e anche oltre era stato anche presidente nazionale di Propietà Edilizia e leader politico liberale nelle associazioni dei costruttori, nonchè combattivissimo consigliere comunale. La politica per Fossati? Vade retro, il suo partito era solo il Genoa e che partito!

Costruiva una casa dopo l'altra, le fotografava e poi riempiva il suo ufficio, un piccolo ufficio in una strada centrale della città, in via Fieschi, di quelle foto orgogliosamente allineate una vicina all'altra. Il Genoa sarebbe diventato un bel passaporto, ma non ce ne era altro. Neppure la vita associativa nel Ghota dei costruttori edili, in quel bel mondo di grandi imprenditori che, sempre sulla scia di quel boom, portava i bei nomi della società genovese, dai Perri, ai Parodi-De Rege, ai Traversa, ai Gardella, ai Dellepiane e appunto ai Viziano.

Era talmente impegnato nella sua battaglia quotidiana da non vedere altro che costruire, costruire. Era riuscito, forse senza neppure avvedersene, a sfondare un muro storico nella Genova monopolizzata dalle Coop rosse, arrivando a costruire un supermercato della Pam nel quartiere di san Fruttuoso, nel cuore degli anni Ottanta, quando sotto le appena nate giunte rosse Pci-Psi non si muoveva foglia, nella grande distribuzione, che le Coop non volessero.

Un uomo così, un impresario di quella fatta, non cercava mai neppure sponde in messaggeri e leader politici che potessero aiutarlo. Hai visto mai un favore in commissione urbanistica, una spinta in Parlamento.....
Si fidava solo del suo avvocato Gerbi, che stava diventando uno dei più importanti amministrativisti della città. E poi si sarebbe fidato solo di Virginio Bazzani, che avrebbe spinto a diventare commissario del suo Genoa, in momenti particolarmente critici.

D'altra parte il suo passaporto era quel Genoa di cui era diventato dirigente ai tempi della presidenza di Berrino, un potente imprenditore, quello sì nel ghota genovese, poi commissario unico e poi presidente. Era un calcio diverso con la serie A a 16 squadre e tre retrocessioni. Difficile salvarsi, restare in A, mettere su una squadra che resistesse non solo alla Juve degli Agnelli, all'Inter di Moratti e Fraizzoli, al Milan che non era ancora berlusconiana , ma che non soccombesse in B contro società molto più potenti “politicamente” di quella del “massacan Fossati”, la Fiorentina, il Bologna, la Lazio.

Dei dieci anni di presidenza ne trascorse esattamente cinque in A e cinque in B, in un'altalena di quelle che forgiano la passione e il tifo. Dalla sua gestione uscirono tanti giocatori, uno su tutti, Roberto Pruzzo, un bomber nato in uno di quei paesini dove Fossati avrebbe potuto anche costruire le sue case e che poi vendette, in una specie di psicodramma, alla Roma, dopo una ennesina retrocessione e un rigore che quel ragazzo sbagliò, proprio sotto la gradinata Nord del supertifo rossoblù.

Fossati era abile e furbo e anche un po' spregiudicato nel gestire la società: riuscì a stipare oltre sessantamila tifosi in due partite storiche degli anni settanta nel vecchio stadio Luigi Ferraris, quello poi ristrutturato per i mondiali del 1990. Mancavano perfino i biglietti per una partita che molti non riuscirono neppure a vedere dagli spalti, tanta era la folla e, quindi, il patron si servì dei tagliandi del cinema.

Un “numero” che oggi, nell'epoca delle tessere del tifoso e dei tornelli all'ingresso degli stadi e delle blindature militari del calcio, sembra una acrobazia sconsiderata e invece era l'acume spregiudicato di un amministratore che cercava di cogliere al volo l'occasione. Mica c'erano i diritti Tv e scio' Renso capitalizzava gli incassi, moneta sonante.
Ebbe sfortuna, quando decise di allestire all'inizio degli anni Ottanta una squadra più forte della sua tradizione, comprando due giocatori di gran classe, un olandese, Peters e un belga, Vandereychen, ma si infortunarono ambedue e addio sogni di gloria.

Quel Genoa “fossatiano” spesso si salvava all'ultimo o retrocedeva e i tifosi contestavano eccome, riuniti nelle associazioni dei piccoli azionisti, per i quali Fossati era il nemico. Scontri epici in genovese durante assemblee di fuoco. Ma quello, come ha scritto, Gessi Adamoli su Repubblica era, comunque, un calcio romantico e artigianale.

Quando miracolosamente, all'ultimo secondo del campionato del 1982, il Genoa si salvò con un gol del mediano Faccenda, ben 10 mila tifosi accorsero a salutare la squadra che restava in A, la polizia aveva consigliato a Fossati di starsene alla larga. E lui rispose. “Ci vado quando mi contestano e ora che mi vogliono festeggiare volete fermarmi?”
Quando mollò, un po' stanco per le tensioni, un po' troppo coinvolto nelle emergenze del suo business di costruttore, che incominciava a stentare in una città in crisi, era inizialmente come se non se ne fosse andato.

Il Genoa non era più il suo passaporto, ma restava una passione da tifoso. Gli aneddoti sulla sua rusticità ligure continuavano a tramandarsi come quelli delle storpiature che gli venivano attribuite in frasi celebri sempre pronunciate a commento delle partite e della squadra. Chissà se era vero che in un'intervista dichiarò che “ a quel giocatore non posso amputare nulla.” E chissà se disse veramente che il Genoa era, in fondo, “la prima squadra che aveva utilizzato un volo Charleston”. Laddove voleva dire “charter”. E' sicuramente vero che quando accompagnò la squadra dal papa, che era Giovanni Paolo II, mentre tutti si prostravano a baciare l'anello, lui tese la mano e disse: “Piacere Fossati.”

Questo era l'ex “massacan”, l'impresario di una Genova che non c'è più e che aveva un suo stile, diretto, frontale. In un calcio tanto diverso uno come lui mancherà e forse mancherà anche a una città tanto diversa da quella che lui, in parte, ha anche costruito con le sue mani.  

*In collaborazione con Blitzquotidiano.it