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Il governo non ha gestito il dossier. Inascoltate le parole del Papa
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Comunque vada, questa storia dell'Ilva che tornerà in mano ai privati - ad aggiudicarsela sarà la cordata formata da ArcelorMittal e gruppo Marcegaglia, con il successivo arrivo di Banca Intesa - è destinata a rivelarsi un insuccesso. Perché far ripartire la principale azienda siderurgica italiana con la zavorra di circa 6.000 esuberi - non si sa ancora quanti saranno a Taranto e quanti a Genova, il secondo polo del gruppo - è una cosa ai limiti dell'incredibile.

Ci si chiede, cioè, che cosa diavolo abbia mai combinato il governo - prima quello di Matteo Renzi, poi quello attuale di Paolo Gentiloni - sul dossier Ilva e, in particolare, come abbia gestito il rapporto con i potenziali acquirenti. È evidente, infatti, che né il premier, né il ministro dell'Economia, né quello allo Sviluppo economico o uno straccio di altro titolare di dicastero ha fatto presente agli aspiranti proprietari del colosso dell'acciaio che i quasi 15.000 posti di lavoro sarebbero dovuti uscire indenni dall'operazione.

Macché, niente di niente. La sgangherata e sciagurata gestione della famiglia Riva ha sfasciato l'Ilva, ma nel momento in cui il governo ha fatto il necessario - va riconosciuto - per tenere in piedi l'azienda e tentarne il rilancio attraverso la vendita, ecco venire fuori l'amara realtà: il conto lo pagheranno i lavoratori, centinaia dei quali finiranno in mezzo a una strada.

È probabilmente vero, persino certo, che dal punto di vista strettamente industriale ArcelorMittal-Marcegaglia non avranno bisogno nel breve e medio termine di tutta la forza lavoro oggi presente nell'Ilva, ma la vicenda ha tale eccezionalità che Palazzo Chigi avrebbe dovuto mettere preventivamente in atto degli interventi che consentissero il salvataggio dei livelli occupazionali prim'ancora di arrivare al closing della cessione.

Qualcuno potrebbe facilmente obiettare che esistono precise normative europee a impedire qualsiasi aiuto di Stato nei confronti dell'Ilva. D'accordo. Però cinque-seimila esuberi che almeno inizialmente graveranno sui conti degli ammortizzatori sociali costituiscono comunque un peso per il bilancio statale. Dal punto di vista dei costi, quindi, la vicenda non sarà neutra. In più il sistema Paese riceverà una botta incredibile, anche di immagine, considerando che in realtà non siamo in condizione di rinunciare neppure a un posto di lavoro. Figurarsi a seimila!

A dircela tutta, insomma, gli argomenti non mancherebbero per chiedere a Bruxelles una deroga. Il problema sono la volontà di farlo e la capacità di sostenere una simile posizione. La prima potrebbe arrivare dalla attuale fase politica: con le elezioni ormai date alle porte, non sarà una passeggiata soprattutto per il Pd - principale azionista del governo - presentarsi agli elettori con una simile spada di Damocle sulla testa. La tentazione sarà quella di fare promesse che poi non verranno mantenute e qui la guardia di tutti dovrà rimanere altissima.

Quanto alla capacità di sostenere la tesi di una deroga che consenta allo Stato di affiancarsi inizialmente ad ArcelorMittal-Marcegaglia va detto che manca la necessaria credibilità di Roma verso Bruxelles. Troppi precedenti dossier testimoniano la nostra sostanziale inaffidabilità anche di fronte agli impegni più conclamati. In più, non mancano cancellerie europee pronte a fregarsi le mani se l'Italia dovesse prima ridimensionarsi e poi uscire da un settore strategico come quello dell'acciaio.

La situazione, dunque, è maledettamente complicata e tocchiamo ferro ricordando che i Marcegaglia erano fra i "capitani coraggiosi" che presero in mano l'Alitalia. Con quali esiti è oggi sotto gli occhi di tutti. Alla fine, per avere una speranza bisogna appellarsi alle parole pronunciate dal Papa proprio all'Ilva, durante la sua recentissima visita a Genova: "Il buon imprenditore è prima di tutto un lavoratore, non è uno speculatore". Se qualcuno della nuova proprietà Ilva se ne ricorderà sarà un miracolo.