politica

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Con il fortunato invecchiamento della popolazione, decine di migliaia di famiglie italiane oggi sono anche datori di lavoro. La badante non è un lusso, ma una necessità per quei coniugi che ancora hanno la buona sorte di lavorare entrambi. Ma come si sceglie una badante? Con il passa parola o rivolgendosi ad apposite organizzazioni, siano esse no-profit o a fine di un onesto (si spera) lucro. La si testa, in genere per un periodo variabile tra una settimana e un mese: se la sua professionalità non convince (va dal modo di fare, all’approccio con gli anziani, alla gestione dei farmaci e quant’altro) si passa ad altra/o candidato. Se, invece, la prova viene superata, allora la badante viene blindata da un contratto. Più spesso a tempo determinato, ma guai a chi la tocca. Quella dipendente diventa un perno insostituibile della famiglia, che certo non passa le giornate a complottare su come disfarsene.

E allora, a proposito di articolo 18: chi può ragionevolmente ritenere che un’azienda con più di quindici dipendenti sia qualcosa di diverso dalla famiglia che porto ad esempio? Per quale motivo, se non un inspiegabile raptus di follia autolesionistica, un imprenditore dovrebbe disfarsi delle persone che bene lavorano per lui? Per converso: chi oggi ulula contro la cancellazione dell’articolo 18, come si comporterebbe se la badante del suo genitore, pur dopo aver dato ottima prova di sé, all’improvviso si rivelasse di totale inefficienza? Se la terrebbe fino alla conclusione del contratto, quand’anche fosse a termine, o proverebbe a cambiarla subito, ritenendo doveroso e giusto quell’avvicendamento?

Prima che qualche anima candida si affanni a informarmene, so da solo che il paragone portato è improprio sotto molti punti di vista, ma tutto il dibattito-polverone che una volta di più si alzato e si alzerà intorno a questa storia dell’articolo 18 manca di un requisito fondamentale: la praticità del buon padre di famiglia. Esattamente quella figura alla quale i politici dicono di voler ispirare la loro azione, salvo deludere puntualmente quest’impegno.

I diritti non si cestinano e quello al lavoro è costituzionalmente tutelato. Men che mai si cestinano i diritti conquistati a costo di enormi sacrifici. Ma il tempo passa, i costumi evolvono, i contesti cambiano (quelli sociali come quelli economici) e i diritti non possono essere come gli stolti che restano immutabili. Vanno adeguati, aggiornati, resi funzionali. Senza l’ipocrisia che circonda l’articolo 18. I sindacati, la Cgil soprattutto, se ne fanno paladini, ma quanti stati di crisi, quanti accordi aziendali hanno sottoscritto anche se parlavano di esuberi e di conseguente messa in mobilità, termine più gentile di licenziamenti sebbene di quelli si trattasse?

Posso capire che in questo Paese alla deriva, con le strade lastricate più di corruzione e malaffare che di buone azioni, si sia portati a pensare che ogni cambiamento sia destinato ad essere utilizzato in modo criminoso. Via l’articolo 18 uguale licenziamenti indiscriminati, però, è un’equazione che non regge. A meno che i sindacati non ritengano gli imprenditori italiani un’accolita di delinquenti, tutti emuli del Calisto Tanzi della vecchia Parmalat e non di quei disgraziati che s’arrampicano sugli specchi per tirare avanti e pagare gli stipendi ai dipendenti, che magari essendo 16, 20 o 25 hanno diritto alla tutela dell’immarcescibile articolo 18 (che però già non vale più nel caso di comprovata crisi economico-aziendale). Non voglio tirare in ballo la propaganda (ma c’è molto di vero) sul fatto che proprio i sindacati siano dei pessimi datori di lavoro, ma dire una parola, questo sì, contro ogni forma di pregiudizio nel confronto politico.

Il pregiudizio è l’arma che Cgil, Cisl e Uil – fino a eventuali ripensamenti di tutto o parte del fronte sindacale – stanno imbracciando in questo momento, rifiutando per partito preso di rimuovere uno degli argomenti che gli investitori stranieri puntualmente ci sbattono in faccia quando spiegano le ragioni per cui si tengono alla larga dalle italiche latitudini. E magari bastasse liquidare l’articolo 18 per risolvere tutti problemi che ci hanno scaraventato nella più brutale depressione occupazionale, ma che cosa guasterebbe se intanto cominciassimo a fare un passo, aspettando una sburocratizzazione vera, processi civili più celeri e con certezza del diritto, minore ingerenza della politica negli affari?

Su ciò dovrebbe riflettere anche la minoranza del Partito democratico, che nel criticare il segretario e premier Matteo Renzi ha molte buone ragioni. Ma non questa. Davvero Bersani, D’Alema e compagni pensano che gli italiani siano così scemi (e diciamolo!) da non capire la strumentalizzazione di bassa politica politicante che si sta facendo intorno alla vicenda, utilizzata come clava per abbattere il loro leader, o almeno pesantemente condizionarlo? C’è persino un che di eticamente riprovevole in questo utilizzo distorto di un simile argomento, perché si gioca sulla pelle delle persone. E prima di tutto dei giovani. Ma come, il Pd intero ci ha rifilato di tutto – dal governo Monti in poi – compresi l’aumento dell’età pensionabile (in Germania stanno pensando di ridurla: non siamo la Germania, ma forse ne abbiamo più bisogno per liberare dei posti) e quel capolavoro degli esodati di cui ancora non siamo venuti completamente a capo, e ora ci vuole negare almeno la chance di provare qualcosa di diverso?

Guardiamo all’articolo 18 come se fosse la badante chiamata a lenire le sofferenze in famiglia: almeno testiamolo, tocchiamo con mano se può darci un po’ di sollievo (ripeto, non è l’unica cura che serve) e aprire ai nostri ragazzi le porte di quelle aziende che potrebbero assumere e non lo fanno perché vedono incerte le regole e non sanno se i buoni ordinativi di oggi saranno gli stessi di domani. Che poi: meglio tenerli tutti disoccupati, ‘sti giovani, o intanto farli lavorare e metterli nella condizione di farsi valere e quindi rendersi indispensabili per l’impresa che se li è messi in casa? Senza tralasciare un altro, diciamo così, dettaglio: oggi, chi perde il lavoro a cinquant’anni non si ricolloca manco se scende lo Spirito Santo. Sarà che senza articolo 18, cioè senza il vincolo del matrimonio occupazionale indissolubile, anche costoro potrebbero arrivare più spediti e meglio alla pur lontana pensione? Dove stiamo e come stiamo male lo sappiamo. Anche tentare di uscirne è un diritto da non calpestare.