economia

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Il tratto distintivo più marcato del piano industriale varato dal consiglio e presentato dal presidente Cesare Castelbarco Albani e dall’amministratore delegato Piero Montani è quello di considerare Banca Carige alla stregua di una qualsiasi azienda. Può apparire banale, ma non lo è, visti i precedenti, che hanno portato alla chiusura dei conti 2013 con un rosso di oltre 1,6 miliardi.
 
In un mosaico che resta complesso, e obbliga a esercitare per intero – 800 milioni – la delega per l’aumento di capitale, con conseguente diluizione della quota in capo alla Fondazione, azionista di riferimento, si incastonano, così, alcune tessere che sono cruciali per disegnare il futuro dell’istituto. Intanto, il ritorno alla banca unica, con l’incorporazione, entro il 2014, di Carige Italia. L’operazione, spiega Montani, “ha la sua logica nel fatto che riguarda circa l’85% della massa intermediata”.

Se a ciò aggiungiamo l’accorpamento di 80-90 filiali e il progressivo disimpegno dalle aree più remote rispetto alla Liguria (“lì faremo più provvista che impegni”) si arriva a quella focalizzazione sul Nord Italia che l’amministratore delegato motiva nel modo più ovvio: “Qui abbiamo il 70% di radicamento degli sportelli e l’80% dell’intermediazione”. Ma, soprattutto, ci sono ragioni di macroeconomia e di mercato che la dicono lunga: il Nord Italia è l’area che ha il Pil totale e il Pil pro capite più elevati del Paese ed anche le migliori prospettive di sviluppo.
 
Carige, insomma, torna a fare il suo mestiere primario, cioè va dove c’è il denaro. Pronta a raccoglierlo e anche a distribuirlo. Ma basta con la bulimia espansionista che aveva segnato l’ultima fase della gestione di Giovanni Berneschi, con una “crescita disordinata” che tuttavia Montani, in un estremo gesto di eleganza, attribuisce a “quanto hanno fatto tutte le banche in quegli anni”, concedendo dunque quelle che potremmo definire attenuanti generiche a Berneschi.

Significativo, tuttavia, il riferimento ai 9 sportelli che l’istituto possiede in Puglia e agli 11 in Sardegna: “Da una parte ci scontriamo con tre banche locali, dall’altra con il Banco di Sardegna”. Come a dire: Carige là è uno gnomo, che può guadagnarne a rimanerci? Poiché quei concorrenti non sono nati ieri, né l’altro ieri, sarebbe interessante se Berneschi – al quale rimane il merito storico di aver mantenuto l’autonomia e l’indipendenza di Carige - prima o poi raccontasse quali valutazioni lo hanno spinto a sbarcare su quei lidi.

E’ un capitolo, comunque, che Montani si accinge a chiudere. E la musica cambia anche a proposito dei crediti. Si comincia portando la copertura delle sofferenze dal 49,8 al 56,3% e quella degli incagli dal 14,6 al 20,3% (e questo fa parte della pulizia dei conti che ha portato al pesantissimo “rosso”), ma si proseguirà con una politica di valutazione dei crediti molto più rigorosa che in passato. E qui, seppur in filigrana, si coglie il senso di un’altra svolta che potremmo definire epocale, alla luce di quanto emerso dall’ispezione di Bankitalia che ha terremotato la banca: è finita l’epoca delle linee di credito privilegiate agli amici e agli amici degli amici.

Chiunque busserà alle porte di Carige avrà la possibilità di avere del denaro a sostegno della propria attività o delle proprie necessità, però le garanzie da fornire saranno quelle richieste a tutti. Non basterà più l’essere sodale di questo o quel gruppo di potere perché i cordoni della borsa si allarghino. Significa che siamo alla vigilia un nuovo “credit crunch” da parte di Carige?

Il rischio, comune al resto del sistema, sicuramente c’è, ma è importante anche l’impegno che Montani si assume pubblicamente quando risponde a una domanda diretta della nostra Elisabetta Biancalani sul rapporto con le aziende: “Noi vogliamo essere un sostegno alla crescita dell’imprenditoria”. Troppo generico per essere rassicurati, ma il criterio di equanimità ed equità che emerge è fondamentale: si finanzia la qualità e la prospettiva di un progetto, non “chi” lo presenta e magari per il solo fatto che ruota intorno a un determinato ambiente. Il capitolo degli esuberi, infine, non è dissimile da quello che stanno scrivendo altre aziende di natura diversa.

L’esigenza di contrarre i costi passa anche per questa brutta strada: le eccedenze di personale sono 600, certo non pochi, ma rispetto al panorama generale qui c’è almeno il vantaggio che si tratta di esodi incentivati o pensionamenti, per cui nessuno finirà in mezzo a una strada. Ci sono anche 150 assunzioni, il segno di una tendenza al rinnovamento dell’organico che riduce il saldo negativo e porta in primo piano pure la strategia aggressiva che Montani vuol mettere in campo: 600 unità, infatti, verranno riqualificate sul versante del commerciale, con l’evidente intento di attaccare con più armi possibili il mercato. In conclusione, si può dire che il piano mostra un doppio filo conduttore: accrescere la solidità della banca e aumentarne la competitività azionando le due leve dell’efficienza e della produttività.

Non sono, ovviamente, tutte rose e fiori. Ma finalmente si capisce dove Carige vuole andare a parare e quale partita vuole giocarsi. Difficile dire se sarà un po’ meno ligure, con la Fondazione destinata a calare dal suo attuale 46%, ma di sicuro, almeno nelle intenzioni e aspettando che seguano i fatti, Carige sarà un po’ più europea. Non è poco, mentre si accinge a passare sotto l’egida della Bce.