politica

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Errare è umano, perseverare è diabolico. Negli antichi adagi popolari c’è la perla della saggezza che la nostra classe politica ha smarrito da decenni. Preferendo battere il sentiero della pervicacia fine a se stessa, anche quando la prudenza e la necessità indurrebbero a un comportamento opposto.

Un mirabile caso simbolo è questo pasticcio brutto del disegno di legge che porta il nome di Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Gli obiettivi sarebbero quelli di abolire le Province e di far risparmiare alle casse dello Stato circa due-miliardi-due all’anno.

Oltre a privare, come enfaticamente ha “twittato” il premier, tremila politici italiani di una indennità sulle spalle dei cittadini. Chissà se quest’ultima avverrà, di sicuro gli altri due bersagli verranno falliti. Perché le Province restano, essendo previsto che vengano riorganizzate, e quando non restano saranno sostituite dalle Città metropolitane (fra queste, una sarà Genova).


Con un vulnus alla democrazia, visto che il capo di queste città sarà il sindaco del capoluogo, e quindi sarà sottratto al voto degli altri elettori. Quanto ai risparmi, la Corte dei Conti – che a più riprese ha bocciato il provvedimento – li stima al massimo in 35 milioni, mentre autorevoli costituzionalisti, economisti e conoscitori del pachiderma Pubblica Amministrazione valutano che alla fine si avrà un aggravio dei costi. Lasciando sul campo, per sovrappiù, anche il caos.

Volete un esempio? Se il “Ddl Delrio” non sarà approvato dal Parlamento entro il 5 aprile prossimo, le Province rottamande dovranno andare al voto per rinnovare i loro organi. Ma anche se ciò non avverrà, rimarrà un tale livello di confusione su ruoli, competenze e prerogative, che il minimo da aspettarsi è una endemica conflittualità legale fra Stato e istituzioni locali. In questo scenario, Renzi ha diabolicamente deciso di tirare dritto sull’evidente errore, decidendo che sull’argomento venga posta la fiducia, dopo che martedì, al Senato, il suo governo è finito due volte sotto e solo per un pelo (115 no contro 112 sì e un’astensione, che vale come un sì) ha fermato l’emendamento del Movimento 5 Stelle che chiedeva di bloccare il “Ddl Delrio”. 

Quello del premier è un doppio azzardo: sul contenuto del provvedimento, il quale come detto presenta una tale massa di lacune da produrre risultati contrari a quelli stabiliti, e dal punto di vista politico, mettendo a dura prova una maggioranza che nel giro di poche settimane – secondo i tempi fissati dallo stesso premier – dovrà affrontare il terreno minato delle riforme. Che Palazzo Madama, fra le altre cose chiamato a votare il proprio de profundis, potesse trasformarsi in un Vietnam era scritto fra le previsioni più facili. Surreale e imperdonabile, però, che Renzi ci stia mettendo del suo per fare in modo che ciò avvenga.

Al di là di come finirà – e siamo certi che l’Aula lo farà passare – il “Ddl Delrio” è uno degli elementi che contribuiranno ad avvelenare il clima al Senato e intorno al governo. Nel suo incedere con il piglio di “un uomo solo al comando”, il premier sta dimenticando (meglio: lo sa benissimo, ma mostra di infischiarsene) due questioni niente affatto marginali. La prima: è a capo del governo senza l’essenziale passaggio elettorale, ma in virtù di un avvicendamento figlio di una faida interna al Pd. Quindi, si trova persino un gradino sotto a deputati e senatori, “nominati” in Palamento grazie alla vergogna nazionale di una legge elettorale chiamata Porcellum, ma che almeno la parvenza del passaggio alle urne ce l’hanno.


La seconda questione: come il Pd ha più volte rimproverato a Silvio Berlusconi, questa rimane una Repubblica parlamentare e non è che la regola viene meno se alla guida dell’esecutivo c’è un democratico. Cosa significa? Che Renzi, fino a quando non riuscirà a modificare la Costituzione secondo un desiderio sempre meno dissimulato, con il Parlamento dovrà farci i conti e dovrebbe farceli in un modo migliore rispetto ai suoi predecessori, che hanno utilizzato il voto di fiducia come sordina a qualsiasi forma di dissenso.

A confronto anche con il recente passato, il premier si picca di riportare alla guida del Paese la buona politica e presenta le riforme, in tal caso giustamente, come una necessità che l’Italia ha intrinsecamente, al netto dei diktat europei. Ma la buona politica non si nutre solo del contatto mediatico diretto fra il capo del governo e i cittadini, azione nella quale Renzi è maestro. Ha bisogno anche che il clima dentro le istituzioni sia improntato a una concretezza condivisa. Se il giovane Matteo avesse rinunciato al “Ddl Delrio”, peraltro ereditato, avrebbe fornito al Parlamento e al Paese un’ottima prova di cambiamento.

Quanti lo hanno preceduto a Palazzo Chigi non si sono mai fermati prima che un errore diventasse irreversibile. Lui ci ha detto che non sarebbe stato come loro. Però sta facendo come loro.