Nelle tre giornate genovesi di grande tensione sul caso dell'Ilva, con gli operai che bloccavano Sopraelevata, caselli autostradali e il traffico dell'intera città, non si è visto un solo politico mettere la sua faccia nelle manifestazioni, nei picchetti, nelle trattative tra il sindacato e la prefettura.
La politica genovese è diventata incorporea. I politici, i pubblici amministratori, i deputati (ne abbiamo un discreto numero con perfino due ministri del Governo), il sindaco, il presidente della Regione, gli assessori, si sono limitati a comparire nella delicatissima vicenda attraverso comunicati dei loro uffici stampa. Sono apparsi - tanto per citare Beppe Grillo - come ologrammi nelle pagine dei giornali, nelle trasmisioni Tv, sul web. Con nessuna eccezione, compresi i “nuovi” che sarebbero i 5 Stelle.
Non esagerando il leader sindacale della Fiom, Franco Grondona, ex segretario, ma sempre sulle barricate, ha commentato: “Non si può più parlare di forze politiche, perchè le forze non ci sono.....”. Eppure la questione dell'Ilva, la dura trattativa con la spaccatura nel sindacato, il futuro dei 1640 dipendenti e il futuro dell'indotto e la prospettiva per l'area di Cornigliano sono emergenze assolute per la città, oltre che essere un vero caso nazionale, dove si gioca la probabile fine di una politica industriale italiana.
In altri tempi, anche abbastanza recenti, una mobilitazione come quella di queste tre giornate avrebbe sollecitato l'intervento “corporeo” in piazza di molto personale politico, soprattutto di quello che nella sua storia profonda ha sempre rappresentato i lavoratori, le loro battaglie, magari anche per dissentire, distinguere, o semplicemente assistere.
Ricordiamo sindaci come Fulvio Cerofolini, che durante battaglie frontali nelle quale gli operai erano in piazza, saltava sui tavoli, in mezzo ai ribelli, per parlare, anche per esprimere opinioni diverse sulle mosse del sindacato. Ricordiamo segretari di partito e non solo del Pci storico, ma poi anche del Pds, dei Ds e infine del Pd, militanti semplici, “storici” leader, magari in pensione, ma sempre “vivi” come presenze in quei cortei. Un passo indietro a volte o di lato, ma presenti, in qualche modo referenti di qualcosa che continuavano a rappresentare.
Oggi è molto più comodo farsi intervistare lontano dalla bagarre, nel proprio ufficio e pesare le parole di una presa di posizione centellinata nel comunicato, oggi è molto più prudente apparire da lontano, come sollecitatore del governo, che deve essere presente alla riunione invocata dal sindacato.
Ma come mai ci siamo ridotti così, come è potuto capitare che la nostra politica diventasse incorporea, che il Pd, erede di un partito dei lavoratori, tacesse e fosse assente, preferendo probabilmente gli intorcigliamenti sui suoi precari equilibri tra primarie da fare o no, tra segretari e commissari, alla carne viva di una questione vera come Cornigliano?
Come mai nessuno ha avuto il coraggio di andare su quella striscia di Gaza che divideva in pochi metri i caschi blu e le camionette della polizia dai caschi degli operai, dallo striscione che invocava come i patti vanno rispettati, a testimoniare una presenza, non intendiamo dire una posizione, una vicinanza almeno fisica alla lotta dei lavoratori.
Lasciamo stare il merito della questione che è drammatico, perchè in ballo non ci sono solo quei posti di lavoro e il futuro dello stabilimento e di una vicenda che Genova ha vissuto sulla sua pelle dal 1938, da quando riempirono il mare per costruire l'acciaieria a ciclo integrale. Lasciamo stare lo scenario apocalittico della siderurgia mondiale, dalla quale siamo praticamente espulsi e, quindi, perfino la marginalità di una battaglia locale che difende uno spicchio di lavoro, che invoca il rispetto di patti firmati su un altro pianeta, quando il mondo era un altro.
Mettiamo, invece, i piedi in mezzo alle strade bloccate, al traffico in tilt, allo scontro fisico rischiato tra operai e poliziotti, roba da anni Sessanta e Settanta, alla tensione che si è respirata nel cuore di Genova in attesa di una sola parola da Roma. La città tagliata in due dalla protesta era solidale, le file di automobilisti incolonnati per ore, pazienti quasi partecipi (salvo le ovvie eccezioni) al dramma degli operai, come se fossimo sganciati da una logica più complessiva di uno scontro epocale: il futuro di una grande azienda, sequestrata dalla magistratura, stoppata nei suoi cicli produttivi, in vendita sul mercato mondiale, che non aspetta altro che papparsela.
Ai genovesi a molti di essi, obbligati a stare lì con il corpo, perchè bloccati dalle chiusure decise dal sindacato interessava di più il destino della città messo in pericolo con l'Ilva che le ore di coda impreviste. “Hanno ragione, hanno famiglie da mantenere, devono lavorare” _ spiegavano gli automobilisti, dai finestrini delle auto congelate sulla Sopraelevata e in via di Francia o in via Cantore. Come se quel blocco, quell'aria di scontro duro, quei cassonetti incediati, quei fumogeni lanciati, fossero il segnale di una intera città in crisi, ognuno il suo fardello, oggi tocca a quelli dell'Ilva, domani magari a me..... Come se quella battaglia fosse, in qualche modo, anche la loro.
Ma la politica non c'era, stava lontana con il corpo, come se nulla avvenisse, chiusa nei suoi palazzi a misurare le parole. Se non fosse stato per l'intervento in Senato del senatore Maurizio Rossi, che segnalava la incombente grande emergenza di Genova , il caso Cornigliano sarebbe vissuto solo nelle telefonate tra la prefettura e i ministeri, alla ricerca di un nome di ministro, vice ministro o sottosegretario da presentare all'incontro del 4 febbraio.
E meno male che in questa quasi totale incorporeità della politica un gesto, questo sì molto corporeo, ha impedito che lo scontro trascendesse: il gesto del vicequestore aggiunto Maria Teresa Canessa, che in prima fila, faccia a faccia con il muso duro dei dimostranti, si sfila il suo casco azzurro e stringe la mano di un sindacalista e spegne la tensione.
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Il caso Ilva e la politica incorporea di Genova
L'invettiva
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