cronaca

L'ultimo approdo di una nave porta-carbone dopo due secoli
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Di una cosa sono orgoglioso nella mia lunga carriera di giornalista genovese. Di essere stato direttore de “Il Lavoro”, un grande giornale che ha scritto la storia del nostro Novecento, dai suoi albori, attraverso le nostre industrializzazioni, fino a un'altra alba, quella del Terzo Millennio. “Il Lavoro” è nato nel 1903 ed ha avuto la sua trasformazione finale nel 1992, quando le sue pagine sono diventate l'edizione locale di “Repubblica”, mantenendo, però, nella testata ancora quel nome glorioso, senza che mai uscisse un suo ultimo numero e senza che mai ne venisse annunciata la sconfitta.

A fondare questo giornale, straordinario per la ricchezza della sua storia, della sua unicità, della sua resistenza, perfino, alla dittatura fascista, sono stati anche i carbunè, i carbonini, i lavoratori della compagnia portuale che allora costituivano una delle cooperative più forti in senso numerico, ma anche nei collegamenti politici di quel roboante inizio secolo a Genova, sui moli di un porto nel quale arrivavano 600 mila navi all'anno.

Una città di 250 mia abitanti, divisa tra una borghesia oligarchica, chiusa in grandi famiglie e un proloetariato vibrante, decine di migliaia di operai e portuali, in un fermento politico nel quale era nato anche il Partito Socialista.
Ecco perchè oggi, che quella ultima nave di carbone entra a Genova e attracca in questo porto, segnando la fine di un traffico storico, il pensiero non può non correre a “Il Lavoro”, un giornale che nacque con il contributo economico delle leghe dei facchini e degli scaricatori di carbone. Furono loro che, con la cooperativa “Emancipazione”, versarono il 50% delle 60 mila lire che costituivano il capitale iniziale.

Allora i carbonini erano nel porto di Genova più di tremila e costituivano la forza lavoro più consistente dello scalo per il quale quel traffico rappresentava quasi il 60 per cento del lavoro. Erano una compagnia politicamente tanto evoluta che ad essa l'ispiratore e lo stratega delll'idea di fondare un giornale, il mitico Gino Murialdi, pensò, quando quel progetto “rivoluzionario” fu impostato.

Le leghe dei carbonini erano state il perno di un progetto politico molto importante, che sfidava con il socialismo riformista la egemonia repubblicana. I carbonini erano forti, perchè avevano conquistato sul campo un contratto di lavoro che li proteggeva con una organizzazione ramificata sulle banchine: dalla rete assistenziale, ai ristoranti, alle mense, alle sale mediche, allo sviluppo di altre iniziative economiche. Erano una spina dorsale tra i lavoratori.

Gli altri “camalli” erano meno assistiti di loro e, quindi, sui carbunè poteva poggiare un progetto che aveva la pretesa di lanciare un giornale socialista in una città, proiettata potentemente verso l'industrializzazione con un porto che, proprio nel 1903, conquistava la sua autonomia. In quell'anno si costituiva, infatti, il Consorzio Autonomo del Porto.

Certo, con i carbunè c'erano personaggi che hanno fatto la storia dell'intero movimento operaio, i segretari della potentissima Camera del lavoro, Lodovico Calda e Ricciotti Leoni. Ma la scintilla che aveva “acceso” il carbone sotto il progetto de “Il Lavoro” era stato proprio quel Murialdi, avvocato, ma anche vero e proprio capitano d'industria socialista. Con il suo fiuto imprenditoriale ben raffinato, l'avvocato aveva pensato di fondare sul carbone, su quella compagnia, che aveva come leader un altro gigante, Pietro Chiesa, una costruzione politica per rappresentare bene le spinte di crescita di un movimento nato sulle calate in anni di grandi scontri.

C'era appena stato il grande scioopero del 1902 che aveva ridotto alla fame gli scaricatori delle merci varie, come è stato raccontato nei famosi reportage su “Il Corriere della Sera” dal giornalista Luigi Einaudi, il futuro primo presidente della Repubblica italiana. Si capisce, allora, quale storia era quella che incominciava con “Il Lavoro” finanziato dai carbunè e, quindi, poggiato su un traffico, che oggi chiude il suo ciclo storico, mentre l'ultima nave che trasporta un modesto carico dell'oro nero attracca alle nostre banchine.

Oggi il porto containerizzato, senza più i camalli a migliaia con la faccia sporca di carbone, è un altro mondo da quello di inizio Novecento ed è perfino difficile immaginare quelle nuvole nere, quelle navi che aprivano le loro stive dai ponti alti, per permettere agli scaricatori in precario equilibrio sulle passerelle di vuotare le cuffe piene di carbone o di farsi inghiottire da quelle stive stesse per caricarlo, il carbone, la “benzina” del porto stesso e delle grandi fabbriche che sorgevano intorno, i cantieri, la grande acciaieria sul mare e tutto il resto.

Quanto carbone è passato per il porto di Genova, quanti milioni di tonnellate, quante navi? Oggi che la nuvola nera si posa per sempre, la compagnia “Pietro Chiesa”, il suo ultimo console, i suoi lavoratori, reduci di quell'esercito e di una tradizione così forte, affrontano l'emergenza di un finale “storico”. E' solo una nave, neppure una grande nave, che chiude questo ciclo con la sua manovra di attracco nel grande porto pieno di scatoloni. Ma porta con sé inconsapevolmente una grande storia.