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"C'è un limite oltre il quale il profitto diventa avidità"
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Alcuni giorni fa Sergio Marchionne, il potentissimo capo di Fiat-Chrysler, parlando ai vincitori di un premio Luiss per la finanza se n'è uscito così: "C'è un limite oltre il quale il profitto diventa avidità e chi opera nel libero mercato ha il dovere di fare i conti con la propria coscienza". Affermando, inoltre, che "non si può demandare la creazione di una società equa al funzionamento dei mercati, perché essi non hanno coscienza, non hanno morale, non sanno distinguere ciò che è giusto e ciò che non lo è. L'efficienza non è e non può essere l'unica regola di vita".

Quando certe osservazioni arrivano da uno che guadagna circa 150.000 euro al giorno, verrebbe da chiedergli se ritenga che la sua paga, pur fatta anche di bonus e premi legati ai risultati, appartenga o no alla categoria dell'avidità, percependo in 24 ore l'equivalente del salario di 100 operai in un mese. Un vecchio adagio popolare bolla così le prediche di certi preti: "Fai come dico, non fare come faccio". E allora il tema sollevato da Marchionne, accantonando anche molte delle sue azioni durante il risanamento di Fiat, merita comunque attenzione, soprattutto se rapportato a molte vicende di questi anni e di questi giorni.

La prima che viene in mente riguarda la drammatica vertenza Ericsson, che vuole licenziare in Italia 385 dipendenti (322 secondo l'azienda, mentre i sindacati mettono nel conto anche i lavoratori di Pride, società di consulenza acquisita nel 2010) dei quali 147 solo a Genova, nell'incompiuto villaggio tecnologico degli Erzelli. La multinazionale svedese ha preso la decisione non perché abbia un crollo dei ricavi, ma a causa di una modesta contrazione degli utili. Cioè: continua a fare profitti, però non nella misura che vorrebbe e che aveva previsto.

Può bastare questo a motivare una scelta tanto traumatica per centinaia di persone come la cancellazione del loro posto di lavoro? Ovviamente no. Ed è la risposta del buon senso, prim'ancora che di una analisi sociologico-politica. Ericsson ci mette il buon peso di voler efficientare i costi e la sua produzione, con l'obiettivo di mantenere e migliorare la propria competitività in un mercato ritenuto sempre più difficile.

Come si vede, ci sono tutti gli ingredienti che Marchionne indica nel delineare i connotati di un mercato finanziario "senza coscienza". Solo che qui parliamo di economia reale e non è che il distinguo, spesso tanto sottile da non fissare un confine vero, possa giustificare ciò che non lo è affatto.

C'è pure la complicazione che Ericsson finora abbia accettato il tavolo governativo al Ministero del Lavoro, per discutere la dinamica dei licenziamenti, ma rifiuti qualsiasi approccio al Ministero dello Sviluppo Economico, dove invece si parlerebbe di come si potrebbero impedire quegli stessi licenziamenti. Un atteggiamento arrogante, di chiusura totale. Che, per sovrappiù, dimostra l'incapacità del governo di richiamare duramente la multinazionale alla coscienza del ruolo sociale che svolge.

E non si dica che l'esecutivo non ha gli strumenti per cambiare verso a tutta questa storia. Come mi è già capitato di scrivere, basterebbe escludere dai finanziamenti pubblici Ericsson e tutte le imprese che non forniscono garanzie occupazionali pur in presenza di bilanci solidi. Quando la finanza e l'industria sono sorde a certi richiami, tocca alla politica intervenire. Però bisogna volerlo fare. E purtroppo l'esperienza ci racconta che di fronte a certi poteri forti, come multinazionali del calibro di Ericsson, la politica è timida, persino tremebonda. Perché coltiva altri interessi. Tanto i vasi di coccio sono i lavoratori.