salute e medicina

A Genova il registro nazionale
4 minuti e 37 secondi di lettura
Ho compiuto 18 anni e la prima cosa che ho fatto è stata quella di iscrivermi al registro dei donatori di midollo osseo e diventare così un potenziale donatore. Una scelta non condivisa da diverse persone che avevo intorno: chi pensava fosse pericoloso, chi mi diceva ma pensa a divertirti, chi mi chiedeva ma chi si è ammalato in famiglia? Sono sempre stata una testarda, una che quando si mette in testa una cosa e ne è veramente convinta la fa nonostante tutto e tutti. E così ho fatto.
Una mattina sono andata al Galliera ho parlato con i medici, ho ascoltato le spiegazioni, compilato moduli e fatto quel piccolo prelievo di sangue: tipizzata.

Avevo deciso di iscrivermi al registro dei donatori di midollo osseo quando ero ancora una ragazzina. Ho avuto la possibilità, per me una fortuna, di poter frequentare per anni medici, infermieri e pazienti dell’Ematologia e trapianto di midollo osseo del San Martino di Genova durante la festa annuale nella quale il professor Alberto Marmont e il professor Andrea Bacigalupo erano soliti ritrovarsi con i moltissimi pazienti che a Genova venivano, e vengono ancora, a curarsi da tutta Italia.
Quell’incontro per me ha sempre rappresentato la festa della vita, di chi ce l’aveva fatta a guarire, e ce l’aveva fatta, in molti casi, grazie a un dono assolutamente gratuito, anonimo di qualcuno che un giorno aveva deciso che il miglior modo di ‘essere maturi’ era fare qualcosa per gli altri in modo disinteressato.

Lungo gli incontri di quegli anni nei miei occhi di bambina e ragazzina prima e poi di ragazza dopo ricordo gli abbracci, la gioia assoluta di chi si rivedeva magari dopo un paio di anni o anche dopo 5 con i capelli ricresciuti, senza mascherine, con il viso non più gonfio. Ricordo anche però il profondo rispetto e dolore per i compagni di viaggio conosciuti in reparto e che non c’erano più.

Scrivo e ho davanti agli occhi la commozione di chi presentava i figli a quella che era stata la compagna di stanza, oppure la gioia di chi ‘festeggiava’ il trapianto mentre in molte città italiane si erano sentiti dire che non c’era più nulla da fare. La maggior parte di loro arrivavano da fuori chi dalla Sicilia, chi dal Veneto, chi dalla Toscana. Persone che fino a pochi giorni prima dalla diagnosi lavoravano, studiavano e poi improvvisamente ‘la tegola’ come molti di loro raccontano quell’istante in cui la vita ha un prima e un dopo e improvvisamente scopri che le cose del prima importanti sono ben poche.

Penso al professor Alberto Marmont, che nel 1976 fu il primo in Italia a effettuare un trapianto di midollo osseo e lo fece proprio su un genovese Pino Tosi un ragazzo appena diventato papà per la seconda volta. Il professor Marmont che in quelle giornate non lasciò mai il reparto e la camera sterile, per stare con Pino e non rischiare di portare infezioni. Lui che abbracciava i suoi pazienti così come il professor Andrea Bacigalupo anche lui presente da giovane medico allora in quel momento che segnò la storia della medicina italiana.

In questi anni non sono mai stata chiamata dal registro, nel mio cuore spero sempre un giorno di poter essere d’aiuto a qualcuno che pochi giorni prima ha ricevuto quella famosa ‘tegola’ sulla testa. Qualcuno come me per esempio figlia unica e quindi già con delle probabilità in meno rispetto a chi ha fratelli e sorelle.

I trapiantati che ho incontrato in questi anni hanno un sorriso e una luce negli occhi che non si può dimenticare. Loro festeggiano non più il compleanno ma il giorno del trapianto “perché quel giorno siamo rinati”. Una seconda possibilità.

Molti purtroppo nonostante il trapianto non hanno questa opportunità. E tutte le volte che ho intervistato sia il professor Marmont, morto nel 2014, e il professor Bacigalupo, ora ordinario all’università del Sacro Cuore a Roma mi hanno sempre ripetuto “c’è ancora molto da fare”.

Penso a quel 20% circa di famiglie che non ricevono al momento la telefonata che li avvisa che è stato trovato un donatore, penso al dolore di vedere il loro marito, figlio, compagno, amico spegnersi giorno dopo giorno quando magari in giro per il mondo c’è qualcuno compatibile al 100% (1 caso ogni 100.000) che potrebbe ridar loro la vita.

Penso al sorriso perso di quelle persone e alla possibilità che quel sorriso torni sui loro visi e allora da donatrice mi permetto di invitare chi può ad iscriversi al registro perché in questo momento c’è magari una bambina che ha perso i suoi lunghi capelli biondi, che quest’estate non può tuffarsi in piscina a giocare con i cuginetti ma è costretta in un reparto di ospedale a fare la chemio e tu, io, potremmo essere quella telefonata che i suoi genitori aspettano da troppi giorni, l’unica possibilità per vivere.

Tutti noi possiamo essere unici e preziosi per qualcuno, quel nostro gemello genetico in giro per il mondo oppure sotto casa. Tutti noi abbiamo dentro ‘quella sostanza miracolosa’ che può salvare una vita, anzi due perché non solo per il ricevente ma anche per il donatore c’è un prima e un dopo il giorno 0.