cronaca

Le motivazioni della condanna a 16 anni e un mese di reclusione
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Quando "saltò su una lancia" "Schettino era consapevole che diverse persone si trovavano sul lato sinistro della nave o, comunque, quanto meno aveva seri dubbi in tal senso e decideva in ogni caso di allontanarsi in modo definitivo dalla Concordia": sono alcune fra le motivazioni dei giudici di appello di Firenze, che hanno condannato il comandante della Concordia a 16 anni e un mese di reclusione il 31 maggio scorso. 

"Per di più l'imputato scendeva saltando dal tetto della lancia prima di alcuni altri ufficiali nonché del K2 Bosio che raggiungeva la scogliera a nuoto". Schettino, dicono ancora i giudici del collegio della prima sezione penale, "dopo aver mentito al sottocapo Tosi continuava a raccontare il falso anche a De Falco", mentre "era già in salvo da diversi minuti".

"Schettino intendeva non attenersi alla nuova rotta tracciata dal cartografo Canessa per l'inchino al Giglio, ma passare più vicino all'isola seguendo una sua rotta che non era stata comunicata ad alcuno" e "navigare secondo il suo istinto marinaresco, più a ridosso dell'isola, confidando nella sua abilità". Sul punto, annotano i giudici, "è eloquente la telefonata col comandante in pensione Mario Palombo dove Schettino si informava se c'era acqua alta sufficiente". E ancora, ricordando la maxi-perizia, i giudici di appello scrivono anche che "il way point della rotta tracciata da Canessa non era stato raggiunto dalla Concordia quando Schettino prendeva il comando per cui, come osservato dai periti d'ufficio, il comandante con una manovra appena più decisa ben avrebbe potuto seguire la rotta tracciata da Canessa, cosa che evidentemente non voleva e non faceva".

La difesa nel suo ricorso aveva evidenziato la necessità di far pesare di più le responsabilità degli altri ufficiali in plancia e nella nave. "Non si comprende come Schettino - dicono i giudici di secondo grado respingendo i motivi di ricorso della difesa - al vertice della catena di comando, possa in questa sede pretendere di andare esente da responsabilità per le sue numerose condotte colpose, commissive e omissive, che hanno portato la nave al naufragio solo perché profili di colpa concorrente (di gravità molto minore) sono stati ravvisati anche nelle condotte dei suoi sottoposto in plancia" Vari convergenti elementi, si legge nella sentenza, "inducono a ritenere che Schettino in realtà non era affatto 'ignaro' della rotta e della posizione della nave quando assumeva il comando della manovra" vicina al Giglio. 

Il timoniere indonesiano "Jacob Rusli bin non comprendeva bene la lingua inglese" e "la circostanza doveva essere nota al comandante Schettino il quale, tuttavia si avventurava in una manovra rischiosa senza procedere alla sua sostituzione". Così i giudici di appello hanno respinto uno dei motivi di ricorso della difesa di Schettino, negando che l'eventuale errore del timoniere abbia concorso all'urto fatale della Concordia contro gli scogli. "Schettino proseguì senza scomporsi una manovra rischiosa", "con una raffica stringente di ordini in inglese a brevissima distanza l'uno dall'altro". Ordini, dicono ancora in sostanza i giudici, che non furono decisivi nella manovra, con la Concordia già contro gli scogli, e che confusero più che mai il timoniere.

"Schettino era a conoscenza che con lo sbandamento della nave oltre un certo grado, le scialuppe non potevano più essere calate a mare", "è pertanto evidente che solo la tempestività della dichiarazione di emergenza generale e quindi dell'ordine di abbandonare la nave avrebbe consentito a tutti i passeggeri di essere imbarcati sui mezzi di salvataggio": così i giudici di secondo grado hanno criticato il ritardo di Schettino nel dare l'ordine di emergenza generale e di abbandono della Concordia. I giudici hanno argomentato contro l'impugnazione della difesa. "L'attesa dell'incaglio" della nave che scarrocciava sugli scogli accanto al porto del Giglio, "il prendere tempo e ogni altra tergiversazione dell'imputato sono state assolutamente nefaste, frutto della mera illusione di poter salvare la Costa Concordia". Inoltre "il comandante non dava personalmente l'ordine di abbandono della nave e tantomeno tramite altoparlante, come previsto dalla procedura"; "l'ordine veniva dato in realtà dal comandante in seconda Bosio" e "non era effettuato per altoparlante ma per radio per cui poteva essere ascoltato solo da chi era in possesso di una radio" di bordo.

"La prova della colpa cosciente dell'imputato non può essere tratta, con ragionamento sufficientemente affidabile, dagli elementi suggeriti dall'accusa, che appaiono indicativi della gravità della situazione di emergenza e quindi della prevedibilità dell'evento, ma non anche della previsione in concreto di esso da parte di Schettino": così i giudici di appello di Firenze hanno respinto il ricorso della procura di Grosseto laddove il pm auspicava un aumento della condanna anche facendo valere la colpa cosciente, cioè la previsione del danno che avrebbe causato con la sua manovra ravvicinata della Concordia al Giglio.

"Non è possibile affermare con certezza se l'imputato avesse sottovalutato la situazione
a causa di una vera e propria 'fuga dalla realtà' successivamente all'impatto, o piuttosto se la sua attenzione e le sue condotte fossero focalizzate sul tentativo di salvare la nave, come appare più plausibile", scrivono i giudici. La corte d'appello di Firenze ammette invece il ricorso del procuratore di Grosseto per la pena accessoria: il divieto di praticare qualsiasi professione marittima, non solo quella di comandante di nave.