economia

I giochi spericolati della finanza affondano Borse e aziende
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Banca Carige chiude i conti 2015 riducendo la perdita da 543 a 44 milioni, ma la sua quotazione scende in Borsa di oltre il 7 per cento. Ecco, bastano queste cifre per testimoniare come l'andamento dei mercati finanziari seguano dinamiche che non hanno nulla a che fare con lo stato di salute delle singole aziende quotate.

In una situazione ordinaria, infatti, il titolo Carige avrebbe dovuto chiudere la giornata di ieri al rialzo, tanto più che il dato sulla riduzione del "rosso" (sarebbe stato di 2 milioni senza i 42 versati per la costituzione del fondo "salva banche" dopo il caso di Etruria e delle "tre sorelle") è accompagnato da una serie di altri elementi positivi, a cominciare dal significativo abbattimento dei costi fissi (compreso il personale), elemento che di solito infiamma l'ottimismo degli investitori.

Non basta. Lo scorso 27 gennaio, l'agenzia internazionale Moody's ha alzato il rating sul lungo termine di Carige, con un "outlook positivo". Indicando cioè come favorevoli le prospettive. Da sempre nutro qualche dubbio sull'operato di queste società, ma se si prende per buono il male, bisogna accettare anche il buono. E allora che cosa succede al titolo di Carige?

Succede che l'incisiva azione portata avanti dal top management della banca ligure, il presidente Cesare Castelbarco Albani e l'amministratore delegato Piero Montani, diventa carta straccia di fronte a uno scenario complessivo nel quale il mercato finanziario somiglia sempre di più a una roulette impazzita, sulla quale quotidianamente si gioca d'azzardo, come dimostra il continuo sali e scendi dei listini.

Più di quanto davvero valgono le singole aziende quotate, valgono le operazioni di finanza pura (non nel senso etico del termine), legate non già ai cosiddetti fondamentali delle imprese, ma alle manovre perverse innescate da subordinati, derivati, sottostanti e quant'altro il sistema finanziario sia riuscito a inventare per lucrare profitti. Di solito riservati a pochi, sulle spalle di molti.

Quanto sta accadendo alla Deutsche bank è emblematico in tal senso, visto che il colosso germanico è in difficoltà perché infarcito di prodotti "over the counter", cioè negoziati su un mercato non regolamentato e fuori dai circuiti borsistici ufficiali. Questo dimostra che le banche non sono un corpo estraneo ai giochi più temerari. In passato hanno gestito come peggio non si sarebbe potuto la loro facoltà di dare denaro e la montagna dei crediti inesigibili - oltre 200 miliardi - creata in Italia è lì a dimostrarlo. Anche Carige, ai tempi della gestione di Giovanni Berneschi, ha fatto la sua pur piccola parte. Ma la risposta della Borsa sull'istituto ligure non è conforme alla situazione attuale, non ci sta proprio. Come in altri casi.

Si può osservare che la tendenza ribassista è provocata da elementi ulteriori come il prezzo del petrolio e una crescita economica troppo debole a livello globale. E le banche, che sono uno strumento della ripresa, inevitabilmente sono le prime a soffrirne. Vero. E a dimostrarlo si potrebbe portare il dato negativo della stessa Carige sul versante dei volumi finanziari intermediati.

Però è altrettanto evidente il disallineamento fra le cifre della crescita - è debole, ma comunque c'è - e i ripetuti tracolli delle Borse, su livelli che in passato, anche di fronte a scenari analoghi, erano assolutamente occasionali.

Qualcosa di sistemico, insomma, non funziona. E questo qualcosa va ricercato in un gigantesco "profit warning" che una volta era riservato alle singole imprese e che, invece, adesso riguarda il mercato nel suo insieme. Di più: si ragiona in termini non di un profitto che diminuisce, ma di un profitto che non aumenta quanto certi operatori e certe (presunte) istituzioni finanziarie internazionali vorrebbero. Se dovessimo applicare uno schema etico al ragionamento, bisognerebbe utilizzare un antico adagio popolare secondo il quale certi ricchi non si accontentano mai della loro ricchezza.

Per fermare, o almeno arginare, questo circolo vizioso occorrerebbe una politica che in Occidente come in Oriente, nei singoli Paesi e nelle aggregazioni fra Paesi - anche solo economiche e commerciali - sapesse fare il suo mestiere. Che è quello di indirizzare scelte e strategie verso il bene comune.

Non si tratta di tornare ai vecchi dirigismi di Stato, ma di prendere atto che l'assoluta libertà di mercato non sta funzionando perché il mercato non sa trovare dentro di se' le giuste contrarie alla spericolatezza selvaggia di questi anni.
Diventata incontrollabile in queste settimane. Servono regole e più stringenti. Ma per imporle serve una politica che sia indipendente dalla finanza. Esiste?