Gli orafi di Arezzo sono diventati la metafora del caso-Boschi. La ministra Maria Elena non doveva imbarazzarsene e lasciarli al loro destino, prevedibilmente difficile se ci fosse stata la fusione fra Banca Etruria e Popolare di Vicenza, perché, appunto, faceva la ministra. In tale veste, sostengono gli oppositori del petalo più risaltante del Giglio Magico, avrebbe dovuto occuparsi delle questioni nazionali, lasciando ad altri le incombenze di quelle territoriali. Anche se da quel territorio lei viene.
Ora, in tutta questa vicenda è capitato di sentirne davvero di ogni tipo, ma questa è davvero la più curiosa. Dà il segno di un'opposizione che a volte sembra aver smarrito gli argomenti, quando gli argomenti ci sono eccome: in un Paese anche solo minimamente normale, Maria Elena Boschi non farebbe più parte del governo perché da ministro si è occupata, per giunta senza averne una competenza diretta, del futuro della banca in cui il papà era vicepresidente. Punto.
Gli orafi aretini sono stati una foglia di fico dietro la quale lei ha tentato di mascherare la propria attenzione. Ed è stato, questo, l'unico passaggio non a vuoto nella gestione di tutta la storia da parte sua. Gli incontri con Giuseppe Vegas, presidente della Consob, con il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e con l'allora numero uno di Unicredit Federico Ghizzoni (rivelato in un libro da Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corsera) non avevano bisogno di parole fuori dal normale per qualificarsi come "pressione".
Se un ministro chiede lumi su un dossier, senza averne una responsabilità diretta, la pressione è bella e confezionata. Questo, ovviamente, vale anche se prendessimo per buona la scusa degli orafi aretini e non ci fosse stato di mezzo l'ingombrante figura di Boschi padre. In quel caso, però, la funzione di rappresentanza del territorio da parte di un componente dell'esecutivo avrebbe avuto il sopravvento e nessuno avrebbe potuto gridare allo scandalo.
Questa distinzione è bene tenerla presente se si vuole evitare un ulteriore scollamento fra la politica e la vita reale delle persone. E sempre questa distinzione rende possibile una certa delusione che serpeggia in Liguria per l'operato dei suoi due attuali ministri, Andrea Orlando, titolare della Giustizia, e Roberta Pinotti, prima donna a guidare il dicastero della Difesa. Nel loro ruolo nazionale stanno facendo bene, per alcuni addirittura benissimo. Insomma, due ministri da promuovere a pieni voti.
Ne siamo tutti contenti e anche lusingati, ovviamente, ma certo non si può dire che i due abbiano egualmente brillato per iniziative utili ai tanti dossier aperti della Liguria. Prendiamo ad esempio il maxi-stanziamento per lo scolmatore del Fereggiano e per i lavori sul Bisagno: è arrivato grazie all'allora premier Matteo Renzi e in seguito all'ennesimo tragico alluvione, non perché i ministri liguri abbiano picchiato i pugni sul tavolo del governo e ottenuto ciò che in precedenza si era solo sognato.
Ecco, in questa differenza tra la poltrona occupata e le cose fatte per la propria terra, o almeno tentate, c'è il quid che aiuta a costruire meglio il giudizio su un politico. Per i parlamentari il discorso è ancora diverso, pur non dimenticando il lavoro di un Maurizio Rossi o di un Lorenzo Basso. Ma rimanendo ai ministri, bisogna riconoscere che prima Claudio Burlando e poi Claudio Scajola, al netto di loro tanti errori politici, si sono fatti sentire molto di più sul territorio. La stessa cosa sarebbe stata probabilmente per Maria Elena Boschi se di mezzo ci fossero stati solo gli orafi aretini e non anche, o meglio soprattutto, l'ingombrante babbo.
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Boschi, gli orafi aretini e i due ministri di Liguria
L'incrocio tra ruolo nazionale e rappresentanza del territorio
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