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Il rilancio di Renzi
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Vedersi ridurre le tasse è il sogno di ogni contribuente italiano. E ridurle è il sogno di ogni governante, qualunque casacca di partito indossi. Nessuna sorpresa, dunque, che il premier Matteo Renzi rilanci l’argomento, parli di abolire Tasi e Imu sulla prima casa e si spinga anche a promettere una riduzione delle aliquote Irpef. Copia Silvio Berlusconi, gli rinfacciano dal centrodestra.

La verità è che parlando come ultimo in ordine di tempo, chiunque sarà sempre tacciabile di copiare chi l’ha preceduto. Normale. La questione si complica perché prima come adesso l’argomento viene maneggiato senza la cura necessaria, piegandolo alla logica del consenso. Lo fece Berlusconi, che difatti non diede corso alla promessa-aspirazione, lo fa Renzi, così preoccupato di spianarsi la strada verso eventuali elezioni anticipate da ignorare gli enormi ostacoli di cassa che dovrebbe superare per passare alla storia come “tagliatore di tasse”. E’ caccia al consenso, appunto.

Solo che utilizzare questo tema per fare presa elettorale significa una cosa: ritenere che gli italiani siano dei fessi, creduloni pronti a seguire qualsiasi pifferaio magico che prometta loro ciò che non essere promesso. Fra i votanti esiste certamente un’ampia sacca di ingenuità, un popolo tanto stremato dalle fatiche del tirare avanti che può farsi illudere: “Magari è la volta buona”. Fino all’inevitabile, nuova delusione.

Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia, è uomo più avvezzo ai numeri del premier, e allora ha un po’ corretto il tiro: provare ci si proverà, ma poiché in queste cose “occorre credibilità, di pari passo dovrà andare il taglio della spesa”. Il ragionamento, posto in questi termini, sta già più in piedi. Ma non basta ancora. Quando si parla di pressione fiscale bisogna considerare tutto, altrimenti si fa solo il gioco delle tre carte. Togli da una parte, ma metti dall’altra. Il saldo, per le tasche dei contribuenti sarà invariato, nella migliore delle ipotesi.

Facciamo l’esempio della Liguria, che è illuminante. L’ente regionale ha fin qui imposto una delle addizionali Irpef maggiori di tutto il Paese, figlia di una spesa sanitaria elevatissima sia per ragioni oggettive (l’anzianità della popolazione) sia per sprechi di varia natura, tanto sanitarie quanto in altri comparti. L’avviso di Padoan – bisogna tagliare la spesa – vale, dunque, anche per la Regione Liguria. Ma su quale budget? I trasferimenti dallo Stato sono andati via via diminuendo e se l’imposizione nazionale non è aumentata è solo perché quel deficit è stato coperto dall’addizionale regionale: per il contribuente ligure, dunque, i tagli realizzati dai governi Monti, Letta e Renzi – anche sui Comuni – si sono tradotti in un aggravio fiscale. Si è spostata solo la responsabilità, che i premier di turno hanno scaricato sui governatori regionali e sui sindaci. Il conto per il cittadino, quello ligure nello specifico, è però aumentato eccome. Il meccanismo è complicato e subdolo, la presa in giro solenne.

C’è un altro esempio che si può fare e viene da ciò che il centro studi della Cgia di Mestre produsse lo scorso gennaio, esaminando la tassazione regionale di Abruzzo, Emilia, Lombardia, Piemonte e Liguria, che da sole valgono il 41,5% dei contribuenti Irpef italiani. Queste Regioni hanno dovuto rivedere le aliquote, con l’esito di una maggiorazione, perché “la legge impone ai Governatori  l’obbligo di fare riferimento ai medesimi scaglioni di reddito Irpef, di conseguenza l’Emilia, la Lombardia e la Liguria hanno dovuto modificare il meccanismo di differenziazione vigente sino al 2014”. Ciò significa, semplicemente, che le fasce di reddito più deboli non hanno più potuto godere delle esenzioni/agevolazioni precedenti. Quella legge l’ha varata il governo, ma la subiscono i presidenti di Regione e, soprattutto, la pagano i cittadini emiliani, lombardi e liguri. Formalmente Palazzo Chigi può dire di non aver aumentato le tasse, ma questa affermazione non è credibile – per usare la terminologia di Padoan – poiché ha semplicemente delegato i Governatori a farlo.
Questo è uno dei tanti possibili esempi di come la complessa normativa fiscale italiana nasconda possibilità di gabole politicamente spendibili al mercato della propaganda.

Oltre al taglio della spesa pubblica, quindi, per rendere almeno verosimile l’impegno a ridurre le tasse, Padoan dovrebbe aggiungere un altro passaggio: lo Stato le riduce e non consentirà (men che mai lo imporrà) che aumentino a livello locale.  Ma dire questo significherebbe ammettere che le cifre necessarie per ridurre la pressione fiscale sono ben superiori a quelle circolate in questi giorni e che neppure richiamo essendo manifestamente taroccate e, quindi, infondate.

Vale la pena, poi, fare un’ultima osservazione. Si parla di riduzione della tasse, Padoan ci aggiunge il taglio della spesa, ma tutti ignorano l’inefficienza del sistema Italia. Oltre una decina d’anni fa, mi capitò di intervistare per il Secolo XIX il fiscalista Victor Uckmar, universalmente riconosciuto fra i più competenti in materia. Fra le molte affermazioni, una resta scolpita sulla pietra: “Finché non si riformerà la pubblica amministrazione, qualunque discorso di riduzione fiscale sarà solo propaganda”.

Prendiamo un cittadino del Nord Europa, fate voi se danese, svedese, norvegese o finlandese: arriva a pagare il 60% di tasse sul proprio reddito, ma poi non scuce più un centesimo per qualsivoglia servizio gli occorra. Poi prendiamo un cittadino ligure che abbia bisogno di un esame clinico specialistico: va alla sua Asl, scopre che deve aspettare mesi anche se nel frattempo rischia di morire, e si acconcia a rivolgersi al privato. Va e paga 2-300 euro, magari anche di più. Ciò, sebbene abbia regolarmente versato le tasse, anche per il servizio sanitario. Dove sta l’errore?