politica

Verso la consultazione popolare / 4
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Con il referendum costituzionale di novembre 2016 si va a votare a favore o contro la riforma Boschi-Renzi. Perché votare Sì e perché votare No? Proseguiamo con l'intervento di Franco Manzitti il dibattito sul tema della modifica costituzionale.


Non faccio molta fatica a seguire la massima immortale di uno dei miei maestri di giornalismo, Indro Montanelli, mio direttore in anni purtroppo lontani e, proprio come suggeriva lui, mi turerò il naso e andrò a votare “sì” nel fatidico referendum istituzionale che non si sa bene quando verremmo chiamati a votare, il 6 o il 13 di novembre o, addirittura, ancora più in là.


Montanelli suggeriva il voto pro Dc come una mossa necessaria in un particolare quadro politico degli anni Settanta, ma dichiarava di non sopportare in alcun modo il “profumo” che esalava quel partito cui era costretto a dare la sua adesione “per ragioni di superiore necessità”.
Non faccio fatica a pensare di turarmi il naso, perchè anche io sono abbastanza disgustato dalla riforma istituzionale che siamo chiamati a confermare o a bocciare e dal modo nel quale arriviamo a questo voto in un dibattito sterminato, confuso, improprio per molti motivi e, soprattutto, per il quadro nel quale ci avviciniamo all'urna.


 Quante emergenze premono sul nostro Paese, nella nostra vita, dentro alle nostre tasche: dalla disastrosa crisi economica che ci affossa più di ogni altro paese europeo e occidentale, dalla insicurezza delle nostre vite, delle nostre città, dagli stravolgimenti che impone una biblica immigrazione di popoli oramai non più sull'uscio di casa, ma “dentro” le nostre mura, fino ai tamburi di guerra che risuonano nel mondo e che ci impongono un ruolo al quale non abbiamo neppure il coraggio di dare un nome preciso per paura delle devastanti reazioni che il terrorismo ci potrebbe scatenare addosso, come a Nizza, come a Parigi, come in Germania, come nel lontano Oriente, dove gli islamisti seminano morte, distruzione ogni giorno.


In questo quadro da mesi, e a intervalli regolari in modo insistente, il nostro dibattito è stato centrato su questo benedetto referendum che cambia la forma della nostra Costituzione e in parte consistente le nostre istituzioni  e “ a strascico” modifica la legge elettorale.


Già c'è da turarsi il naso per come questo dibattito è incominciato, si è sviluppato, è proseguito, si è interrotto ed è ripartito, ogni volta che il rumore della battaglia terroristica o delle altre emergenze, a incominciare da quella devastante della nostra corruzione politica, degli scandali, delle ruberie che si susseguono come un cancro con metastasi in ogni parte del nostro organismo sociale, è esplosa facendoci tremare.


Anche io, come Mario Paternostro, sono confuso e disorientato, anche se è il mio mestiere cercare di capire e ancor più di spiegare agli altri, anche se mi è capitato di moderare dibattiti, confronti, interviste, tra i sostenitori del “si” e del “no”. Già il “modo” di imporre la scelta, “o la va o la spacca” del nostro premier, Matteo Renzi, non esalava un buon profumo con quel diktat che ora egli si sta ringhiottendo in questa estate dei suoi dilaganti silenzi, dopo le passerelle e le exibition scatenate sue e del suo cerchio magico: se perdo me ne vado.
Mi sembrava una sequenza del film la stangata con Paul Newman e Robert Redford a puntare tutta la posta sul piatto. Governare un paese tra i flutti della grande crisi mondiale e locale  non è giocare a la vo o la spacca. Ci vogliono prudenze e accortezze che i padri della patria, quelli che scrissero la nostra bella Costituzione, oggi distesa sul tavolo dell'operazione chirurgica di semiamputazione, ben conoscevano. Ma.....


In questo dibattito abbiamo visto scendere in campo legioni intere di esperti, da una parte e l'altra: siamo, o meglio, sono diventati tutti costituzionalisti in una valanga di prese di posizione, di più o meno sofisticati pareri. Ahi, quanto ho rimpianto, continuando a seguire “la battaglia referendaria”, la secchezza espositiva, la cristallina chiarezza di grandi vecchi come Giovanni Sartori, che purtroppo non scrive più i suoi lapidari articoli su “Il Corriere della Sera”, aprendoci la mente e mettendo i punti fermi che il profluvio di diktat di professori e di comitati, si sogna di piazzare nel duro confronto.


Con tutto il rispetto per gli Zagrebelsky, i Rodotà, gli Acquarone, e i tanti altri da una parte e gli Altomonte, i Cacciari, i Pericu dall'altra tanto per fare a caso alcuni dei cento nomi che affollano i giornali e le televisioni e ogni sistema di comunicazione referendaria. Ma.....


Insomma questo dibattito è diventato un “mostro” dalle sette teste, che si moltiplicano più andiamo avanti e si moltiplicherà ancora, da qui al voto, se non saremo travolti da qualcosa di più grande dell'essenza dello scontro che dovrebbe essere quella di modificare le nostre istituzioni, “stroncare” il bicameralismo, ridurre il ruolo del Senato e - parola magica - ”semplificare” l'iter legislativo e la “forma” del nostro stato.


Se non mi è piaciuto il dibattito, devo anche confessare che la riforma stessa mi ha molto deluso: a chi può piacere un Senato sminuzzato in quel modo e che si andrebbe a comporre con i consiglieri regionali, vale a dire con quella “casta” nobilitatasi in questi anni, in ogni angolo d'Italia e anche nella nostra amata Liguria, con le scandalose “spese pazze”.
Ma vogliamo proprio mandare in quel nobile palazzo Madama, vicino alla splendida Chiesa di san Luigi dei Francesi, gente che si comprava con i nostri soldi i perizoma, le bottiglie di “Nero d'avola” da mandare agli amici, che si pagava i resort e le cenette di Ferragosto alle terme?  A chi può piacere che i  senatori eletti in Liguria si ridurranno ancora nel numero, penalizzandoci, noi regione già così marginale........


A incominciare dall'aut aut di Renzi in avanti la battaglia del referendum è diventata un'altra cosa, mentre tutto il resto precipitava, mentre il Pil non si risollevava, mentre la stagnazione economica sprofondava, la nostra politica industriale spariva, mentre le condizioni di sicurezza si riducevano in Italia e nel mondo, mentre la corruzione dilagava, mentre continuavamo a perdere gli ancoraggi che il premier aveva incominciato a predicare dalle sue battaglie nelle Primarie, saltabeccando, prima da candidato segretario del Pd, poi da premier abbastanza improvvisamente insediato a palazzo Chigi da Napolitano.


Dovevamo ancorarci in modo flessibile all'Europa, rendere più moderna la nostra macchina dello Stato, più veloci i nostri processi decisionali, ridurre l'elefantiasi dei nostri apparati, ridurre lo scandalo di una spesa pubblica che urla vendetta mentre cambia inutilmente commissari delegati ai tagli che non si fanno mai!


Ecco, ma se tutto questo va avanti mentre il popolo si avvicina alla fatidica data del referendum, in che condizioni saremmo subito dopo quel fatidico verdetto? Se il “no” spazzasse le riforma e polverizzasse tutto il processo di cambio istituzionale, il giorno dopo noi saremmo presumibilmente senza un governo (a meno di capriole acrobatiche renziane o altre “mosse del cavallo” Mattarella) e in balia di una tempesta di riforma mancata che ci accompagna oramai da quasi un ventennio.


Abbiamo seguito bene come sono finiti i tentativi di riforma dal 1994 in avanti, dal tentativo Bicamerale naufragato tra la spocchia di D'Alema e le leggerezze di Berlusconi, alla modificazione dell'articolo V, che ha messo su una rivoluzione che ci stiamo ringhiottendo pezzo per pezzo, in nome di una restaurazione centralista rimontante, che spacca il paese longitudinalmente e da Nord a Sud.


La riforma lanciata da Renzi I, quello che non aveva ancora minacciato l'aut aut, era nel solco di un processo di modernizzazione molto lacunoso certamente, ma l'unico vero, incominciato con l'Ulivo di Prodi, mentre Bossi urlava la secessione.
Prometteva, quel tentativo che ahimè oggi potremmo battezzare, in caso di vittoria del “no”, come un conato, una svolta moderna da infiocchettare di compromessi, pesi e contrappesi, ma in linea con una semplificazione diventata una zattera nel marasma europeo.
Senza contare che tutti i tentativi abortiti, o poi tornati indietro, si sono consumati in un quadro politico “certo” rispetto a oggi, con partiti magari in crisi, ma sistemati nella cornice istituzionale e nel confronto tra di loro: i Ds prossimi a diventare Pd, Forza Italia con larghe maggioranze, la Lega urlante al Nord, alleata ondivaga, ma con una bussola ferma, perfino i centristi dell'Udc-Udeur a fare ago della bilancia.


Oggi  in che quadro politico siamo e dove navigherebbe il nostro assetto politico-istituzionale, dopo il successo del “no”?  In un arcipelago in tempesta: il Pd spaccato con un capo decapitato da se stesso, una minoranza rabbiosa,  una Sinistra-Sinistra che cerca vendette, Fi divisa tra il lancio di Parisi e le resistenze di Toti, una Lega dura, lepenista e che guarda ai furori francesi, austriaci e alle ambiguità putiniane e soprattutto i rimontanti-vincenti Cinque Stelle, con un dialogo difficile con gli altri: non più le incomprensioni stile confronto con Bersani, ma quasi una afasia dialettica.


La riforma da tentare sarebbe  con una navicella senza timonieri in un mare in tempesta della politica italiana, mentre l'Europa del Brexit e delle cento altre crisi e estremismi pericolosi ci guarderebbe dubbiosa e preoccupata.


Ecco perchè mi è venuto in mente il maestro Montanelli e il suo suggerimento di turarmi il naso. Lo stringerei forte il mio naso e chiuderei anche un po' gli occhi, sperando di scavalcare il referendum per trovarmi al di là con una riforma approvata, da raffinare certamente anche in modo drastico, ma senza le macerie di un quadro politico saltato senza alternative profilabili, verso elezioni amministrative, compresa soprattutto le nostre liguri di La Spezia e Genova, quasi drammatiche per le scelte che si impongono e il deterioramento del quadro politico, in una deriva che non sarebbe più neppure “liquida”, ma molto di più: “alluvionale”.