
Lo ammetto: per me passare mezza giornata con Renzo Piano, stando ben zitto a ascoltarlo, è una terapia. Ne esco più sereno, speranzoso, ottimista nonostante tutto, nonostante le notizie mostruose che arrivano dal mondo e quelle spesso indecenti che arrivano da luoghi a noi prossimi. Le “Lezioni di Piano” , quindi, sono un toccasana di saggezza e intelligenza, di eleganza e cultura. Lo incontro dal 1978, il mio primo anno di “Decimonono”, quando il grande architetto, allora molto giovane, lavorava nello studio di Pegli, che era una sorta di laboratorio al piano terra di una palazzina, trasformata in una specie di ufficio-serra.
Renzo era già molto conosciuto, aveva già fatto il rivoluzionario Beaubourg di Parigi e era considerato uno dei più promettenti architetti che si erano affacciati sullo scenario internazionale.
Piano mi apparve subito come un architetto “libero”. Certo che anche lui doveva dialogare col Potere realizzando opere enormi in tutto il mondo, ma nei confronti del committente si è sempre posto in modo originale proprio perché quello che progettava era molto originale, molto innovativo. Assolutamente indipendente.
Tutto questo restando profondamente genovese, sobrio, aggettivo che ama molto, fortemente radicato alla sua città di origine. Genovese e grande viaggiatore del mondo. Navigatore, come ama ripetere. L’andar per mare è sempre stato un tema ricorrente dell’architetto che con il mare, con l’acqua soprattutto ha un rapporto fortissimo. La usa senza alcuna violenza, anzi la recupera, ne favorisce il movimento. Così fu facilissimo, per esempio, il suo rapporto con un altro grande genovese, Vittorio Gassman (di Struppa) quando misero in scena (con l’aiuto del maestro Ivo Chiesa direttore del teatro Stabile) l’indimenticabile “Moby Dick” in occasione della inaugurazione del Porto Antico. I due affabulatori dialogavano incessantemente , uno sul palcoscenico trasformato in una baleniera d’antan, proiettato nel mare ritrovato del porto di Genova, l’altro dietro la scena a creare quei teli-vela che coprivano il teatro che, una serata unica, sbattuta da un nubifragio drammatico, trasformò in bandiere gonfie d’acqua. La musica della parola si mescolò a quella del temporale, dei tuoni e dei lampi e degli scrosci d’acqua. Così i genovesi rividero l’acqua del porto vietata per secoli da una immane cancellata. Ora è un elemento naturale intorno all’Acquario. Provate a immaginare come sarebbe Genova senza Porto Antico!
Piano spesso si è definito “un nomade”. Un nomade che fortunatamente ritorna a casa in maniera ricorrente, come l’altro ieri, sulla collina di Vesima nella sua accogliente Fondazione internazionalissima. E con le sua parole l’acqua è tornata a muoversi, davanti alla Foce. Perché Genova è acqua.
E’ stata, quella finita ieri, una settimana di leggerezza e poesia. Ci voleva tutta e ce ne vorrebbe ancora a fare da antibiotico a storie orribili . Ci voleva il festival della poesia inventato da Claudio Pozzani trentuno anni fa e il “Bloomsday”, idea di Massimo Bacigalupo che rilegge le peregrinazioni (anche letterarie) di Leopold Bloom nella Dublino dell’”Ulisse” di James Joyce, giunto alla ventesima edizione. Venti episodi sparsi per la città, dalla Spianata di Castelletto, a Calata Salumi, ai tavoli del bar Moretti, letti da cittadini in cerca di distacco dalla realtà quotidiana.
Dulcis in fundo una targa riconoscente. Quella che un condomino di via Bernardo Strozzi ha deciso di porre per ricordare che lì, in quel palazzo, Giorgio Caproni aveva composto i versi de “L’ascensore.” “Quando mi sarò deciso / d'andarci, in paradiso / ci andrò con l'ascensore / di Castelletto, nelle ore / notturne, /rubando un poco / di tempo al mio riposo.”
Con l’aiuto dell’associazione “Genovaapiedi” e la recitazione di Luca Bertoncini, delicato poeta di strada che dovrebbe essere tutelato dal Fai.
Capite perché parlo di terapia?
IL COMMENTO
Metropolitana di Genova e dintorni
Google ci ruba il web: come le AI Overviews soffocano le fonti editoriali