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Ricordo via Fracchia come un incubo. Strada stretta con le case degli anni Cinquanta e Sessanta addossate le une alle altre. Difficile parcheggiare la macchina. Eppure in questo nastro si compie il percorso finale degli anni di piombo. In cento metri di strada, tra la casa di Guido Rossa e il covo della colonna genovese delle Br. Lassù il santuario di Nostra Signora di Loreto dove Goffredo Mameli debuttò con l’Inno degli Italiani.
Fare il turno di notte al giornale significava tra il 1975 e il 1985 ricevere la telefonata delle Br che segnalavano la presenza dei loro comunicati di rivendicazione o minacce nei bidoni della spazzatura. L’ordine del capocronista del “Decimonono” era di andare sempre con il fotografo sul luogo indicato, muniti di guantoni di gomma per rovistare nella rumenta, cercare il foglio, fotografarlo, lasciarlo al suo posto e avvisare la Digos. Che non la prendeva bene perché avrebbe desiderato che la telefonata di avvertimento fosse fatta poco dopo aver ricevuto la comunicazione dei brigatisti. Ogni cronista aveva al suo attivo il recupero di qualche comunicato. A me una notte tocca andare in una cabina telefonica di Sestri Ponente in via Sant’Alberto. Ci vado con il re dei fotoreporter, Dino Nazzaro. “Boia faus!” impreca Dino afferrando la sua Leika, le chiavi di una strana auto di plastica, bassissima e rumorosa e via a folle velocità lungo le strade notturne che portano a Sestri. La macchina di plastica sembra volersi spezzare su ogni buco dell’asfalto. Sono le undici di notte e il volantino è nascosto tra le pagine di un elenco dentro la cabina all’inizio della strada. Sappiamo che qualcuno dei br forse ci sta osservando chissà da dove. Loro sanno che a prendere il comunicato non mandiamo la polizia, ma ci veniamo noi nella speranza di avere per le mani qualche notizia bomba. Dino fotografa, poi ritorniamo al giornale. Tutto fila liscio per mesi finché ci consigliano di evitare questa procedura poco legale e di avvisarli subito perché queste telefonate, dopo le uccisioni di alcuni giornalisti, potrebbero essere una trappola. In tutti i comunicati di rivendicazione i terroristi minacciano dirigenti delle Partecipazioni statali, democristiani, magistrati e giornalisti sempre pennivendoli sempre servi.

Una notte becco un’altra telefonata. Partiamo con l’erede di Nazzaro, Paolo Welters per via Rimassa nella zona della Foce. E’ un sabato sera. Del comunicato nessuna traccia. Rimesto con i guanti nel cassonetto tra i resti della cena del sabato sera. Esce di tutto: bucce, scatolame aperto, bottiglie vuote, ma della rivendicazione delle Br non c’è nessuna traccia. Abbiamo la sensazione che dalle finestre illuminate di un appartamento alcuni ragazzi ci osservino, ridacchiando. Uno scherzo! La telefonata dei brigatisti è sempre un pugno nello stomaco. La loro voce dall’altra parte della cornetta è sicura e minacciosa, burocratica anche negli annunci di morte. I cronisti vivono con la sensazione di essere osservati quando si dedicano a queste ricerche.

Leggere quegli anni, dal rapimento di Mario Sossi che, una volta liberato a Milano prende un treno come se niente fosse e torna a Genova, è ricordare un’impressionante rosario di delitti e ferimenti molti dei quali li abbiamo completamente dimenticati: 1976 salita santa Brigida, strage del procuratore Coco e della sua scorta: si era rifiutato di firmare l’ordine di scarcerazione dei componenti della banda XXII Ottobre per ottenere in cambio la liberazione del collega Sossi. Gennaio 1977, rapimento di Piero Costa in Spianata Castelletto. Si fa oltre ottanta giorni di prigione del popolo. Poi la gambizzazione dell’ingegner Prandi, quella dell’architetto e segretario della Dc Angelo Sibilla in corso Carbonara, il professor Carlo Castellano ferito alle gambe in via Corsica. Nel 1978 tocca al professor Filippo Peschiera leader democristiano. Colpito alle ginocchia riesce a stare in piedi, nonostante le rotule fracassate, appoggiato a un muro della sua Scuola di formazione in via Trento e a sostenere con i brigatisti una lunga discussione politica. Peschiera mi racconterà dopo molti anni che verrà in seguito chiamato dai capi della Dc per diventare il contatto con il commando che ha rapito a Roma Aldo Moro. Un contatto sfumato in un’area di servizio dell’autostrada Genova-Livorno.
Dopo Peschiera tocca a Felice Schiavetti, capo degli Industriali, poi a Alfredo Lamberti dirigente dell’Italsider. Poi gli anni delle morti: Antonio Esposito che era stato capo dell’antiterrorismo ucciso in via Pisa, Guido Rossa freddato nella sua 850 vicino a casa.

La storia di Rossa segna la svolta, ma ce ne accorgeremo dopo. Graziano Mazzarello era allora il responsabile del Pci per le fabbriche. Era amico di Guido. Uno con le palle, ma per davvero. Un alpinista che andava in montagna con lo scalatore Gianni Calcagno, mica scherzi. Un montanaro, come scrive benissimo Sergio Luzzatto nel suo ultimo libro, non ha paura e sa calcolare i rischi anche se a volte la montagna lo tradisce. Quando Rossa sorprese Berardi che distribuiva in fabbrica i volantini delle Br, prima lo denunciò ai vigilanti e fece la denuncia con altri compagni, cioè, racconta Mazzarello, non fu lasciato solo come si dirà in seguito, quasi che Rossa fosse stato isolato dai suoi. Dai vigilanti della fabbrica ci andarono in gruppo, anche con i sindacalisti. Ma lui andò da solo a fare la denuncia in Procura. “Ci siamo dimenticati di quegli anni. Noi berlingueriani eravamo additati dai terroristi come traditori della classe operaia. Ci consigliavano la notte di cambiare letto. Guido non volle scorte, ma i compagni lo seguivano, Guido era una testa dura. Gli proposero anche un trasferimento di fabbrica, ma non accettò” Poi la tragedia, quella mattina con il suo cadavere rannicchiato nella 850 parcheggiata davanti a casa.

Poi altre gambizzazioni: Giancarlo Dagnino uomo della Dc, in salita Rondinella, Giuseppe Bonzani, dirigente industriale, in via G.B. Monti, Fausto Gasparino dell’Intersind in via Martiri della Libertà, Enrico Ghio candidato Dc alle elezioni Europee in via San Bartolomeo degli Armeni, poi il professor Fausto Cuocolo ferito durante una lezione in Facoltà a Balbi davanti agli studenti, poi il massacro di Mario Tosa e Vittorio Battaglini, due carabinieri uccisi mentre bevevano un caffè in un bar di Sampierdarena, l’uccisione del colonnello dei carabinieri Emanuele Tuttobene, ad Albaro, la gambizzazione di Roberto Della Rocca a Boccadasse, quella del professor Giancarlo Moretti davanti alla facoltà di Economia e Commercio in via Bertani.

Ogni quartiere di Genova ha avuto le sue vittime. In alcune strade c’è una targa che ricorda. Noi cronisti che li abbiamo vissuti, probabilmente, abbiamo rimosso tutto o quasi tutto. E’ sbagliato. Eppure tutti quelli che facevano cronaca nera o politica ne hanno scritto, in quei lunghissimi giorni che sembrava non dovessero mai finire, pagine e pagine sulle misteriose Brigate Rosse. Chi erano, chi le proteggeva. I fiancheggiatori a Genova erano sicuramente tanti, almeno all’inizio. Gli insospettabili o quelli che noi pensavamo, immaginavamo fossero del giro.

Fino alla mattina del 28 marzo 1980. Ho piantate in testa due telefonate del capocronista alla mattina, di buonora, non un orario da cronisti di nera abituati a tour de force notturni. Una, quando dopo un solo mese di pontificato morì papa Albino Luciani, Giovanni Paolo I. “E’ morto il Papa” ma io non gli credetti. Dovette ripetermelo più volte “E’ morto e corri subito dal cardinal Siri che potrebbe essere il prossimo Pontefice!” L’altra, la mattina del blitz degli uomini del generale Dalla Chiesa nell’appartamento di via Fracchia 12. Sembra che abbiano fatto un blitz all’alba. Non si sa ancora nulla di preciso. Ma davanti alla casa di via Fracchia ci sono già tutti i cronisti genovesi. La micidiale colonna genovese, sanguinaria e sconosciuta è stata annientata. Tra di loro anche una ragazza Anna Maria Ludmann, nome di battaglia Cecilia. Era la segretaria del Centro culturale francese. Insospettabile, tranquilla, borghese. Nelle redazioni, quel giorno, c’è una frenesia euforica. Capiamo che forse gli anni del terrorismo stanno per finire.
Ma non sarà così. Certamente l’eliminazione della colonna genovese che poi scopriremo avere avuto un ruolo di primo piano negli ultimi giorni della prigionia di Moro, segna una sconfitta decisiva per le Br. Un mese dopo, poco prima che i carabinieri lo arrestino nella sua casa di via Palestro con l’accusa di essere un fiancheggiatore, si spara un colpo di pistola l’avvocato Edoardo Arnaldi. Aveva difeso tante persone accusate di terrorismo. Arnaldi cenava spesso con me e Tullio Cicciarelli il maestro della critica cinematografica italiana, quando andavano a mangiare dal “Troglodita” in via Palestro (chiamato così perché alla richiesta del menu rispondeva inesorabilmente: “Sciuta e menestrun”…). Era solo e si univa a noi per parlare di politica, di cinema e di teatro. E di nient’altro.

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